Avventure liriche di un uomo basso: “Ho servito il re d’Inghilterra” di B. Hrabal
Grottesca, straripante, lirica: l’opera di Bohumil Hrabal è tutto questo. Nato nel 1914, lo scrittore boemo trascorre l’infanzia con lo zio Pepin, istrionico affabulatore e addetto al malto in una birreria. Questo fatto lo segna per sempre: grande bevitore, Hrabal è profondamente legato alle birrerie praghesi, dove passa interi pomeriggi, tra un boccale di birra e l’altro, ascoltando i discorsi che vi si consumano e gli forniscono l’ispirazione letteraria. Perciò lo scrittore si è definito addirittura “trascrittore”, benché sappiamo che molte delle vicende da lui narrate sono autobiografiche. La sua figura, comunque, appare strettamente legata alle culture che affidano il proprio patrimonio culturale all’oralità. Il suo stile, invece, è inconfondibile: malinconico e immediato, segue il ritmo delle canzoni popolari, in un flusso di coscienza denso di immagini metaforiche, congiunzioni e velate citazioni.
Il tema centrale dell’opera di Hrabal è il rapporto tra un uomo e il suo lavoro. Poiché i suoi scritti sono d’ispirazione spiccatamente autobiografica, il mestiere del protagonista è quasi sempre umile, manuale. L’autore stesso, infatti, baciato in patria dal successo letterario solo negli anni della Primavera di Praga e in quelli della Rivoluzione di Velluto, svolge nell’arco della sua vita molti mestieri umili: ferroviere, impiegato in un macero, assicuratore e, tra gli altri, cameriere. Non a caso quest’ultimo è il lavoro del protagonista di Ho servito il re d’Inghilterra (1971), uno dei più lunghi e apprezzati libri di Hrabal.
Il testo narra la vita di Jan Dite, un cameriere praghese che, afflitto dal complesso innescato dalla sua bassa statura, desidera più di tutto fare carriera, diventare ricco e, in senso lato, tanto “alto” quanto i suoi illustri clienti. Inizia, allora, la sua lunga e inarrestabile ascesa sociale, cui si lega una storia d’amore e di riscatto inscindibile, seppur apparentemente lontana, dalla drammatica storia europea della prima metà del ’900. La linearità della trama è persino artificiosa, mentre l’intreccio oltremodo scarno; eppure, il lettore non rischia di annoiarsi, perché non si tratta di un romanzo monotono. Merito anche dello straordinario uso dei tempi verbali con cui il narratore, interno, tesse il filo della propria storia, che s’intreccia con la storia collettiva senza perdere, tuttavia, la centralità assoluta della dimensione individuale. Non si registrano lunghe digressioni, né si percepisce, da parte dell’autore, alcun intento realistico. Hrabal inserisce, invece, il seme della caricatura, che qui è assimilabile allo stupore, nella vita reale, e vi getta il suo sguardo curioso, sfrontato, sensibilissimo.
Jan Dite non è un essere storico, ma la storia s’impone al flusso narrativo come un palo nel corso di un fiume, come un ostacolo che definisce lo sviluppo delle sue vicende; perciò, proprio perché questi, teso solo ai suoi scopi, fugge la storia, come del resto facciamo quasi tutti noi, ne costituisce un’autentica pedina. Le vicende narrate, grazie a tale atteggiamento, diventano tanto credibili da permettere al lettore una vera immedesimazione nel protagonista: il testo – è chiaro – è scritto con il suo occhio vispo. Così ciò che Jan Dite vede e racconta, benché la materia narrativa assuma i caratteri del grottesco e l’arditezza visiva della metafora, esiste: è una realtà assurda, forse una realtà inventata, ma di certo è una realtà.
Come in tantissimi testi di Hrabal, la città di Praga, luogo dove comincia la storia, è fondamentale. La sua luce malinconica e viva contribuisce a darle un fascino decadente e riflette nella scrittura dell’autore un mondo chiaroscurale. Dal punto di vista geografico, invece, la capitale della Repubblica Ceca si impone come trait d’union tra l’umanesimo dell’Occidente e l’esotismo dell’Oriente. I lampadari di cristallo, i tavolini istoriati e le eleganti divise di quella Praga che nel suo splendore sembra essere ritratta da Klimt si dipingono delle ambizioni, della gelosia e dei tormenti che prova il protagonista.
Ciò che più stupisce, però, di Ho servito il re d’Inghilterra, è l’approccio di Hrabal alla scrittura. Al lettore, infatti, appare quanto mai frenetico, improvvisato e torrenziale, scorrevole oltre ogni misura. La scrittura sembra non passare né dall’organizzazione delle idee, né dall’azione avvilente della battitura; pare, infatti, che Hrabal letteralmente vomiti ciò che il suo occhio intercetta. Ma perché ciò si verifichi serve anzitutto un’acuta dote percettiva, e Hrabal è indubbiamente un esteta, e poi un’urgenza espressiva veicolata con grande semplicità lessicale. Le immagini liriche che costellano il testo sembrano nate dal pennello di un ritrattista teso nella ricerca del divertimento, dietro un impulso di “difesa contro la noia e lo spleen”.
Ho servito il re d’Inghilterra contiene diverse scene di sesso, sempre esplicite e, allo stesso tempo, dense di grazia: l’erotismo convive con la naturalezza, il fascino con l’appagamento. Mentre leggiamo, Jan Dite siamo noi, il lettore diventa basso e il pensiero di questa sua intollerabile bassezza lo perseguita, lo attanaglia, lo spinge a guardare più in alto, verso le suite dei milionari che quotidianamente serve negli alberghi. Così ci abituiamo a vivere in lui, come lui, e adottiamo i suoi occhi, quegli acutissimi occhi cechi, e quando, nel corso del romanzo, dirompe la tragedia inaspettata degli eventi, il lettore non può che provare un’empatia prossima al dolore, perché il protagonista, ormai, è lui. Del resto, Ho servito il re d’Inghilterra non è certo la banale novella di un self-made man che può apparire dalla sua superflua sinossi. Si tratta, piuttosto, di una storia di complessi, sogni ingenui e dedizione, di soddisfazioni precarie, di felicità momentanee e – com’è inevitabile – di disillusione.
Nei passaggi più drammatici del testo, stupisce il fatto che l’autore si concentri esclusivamente sulla forma oggettiva di quanto accade. Jan Dite, che narra vicende per lui dolorosissime, sembra rinunciare a compatirsi, costringendo implicitamente il lettore a farlo nella sua attività – assai creativa – di lettura. Dunque si nota un uso del non-detto ardito che sollecita la reazione emotiva del lettore, già coinvolto nelle vicende narrate. Parabola ascendente e discendente, nel finale il romanzo vede un protagonista disilluso, che ha dovuto sostituire al senso di inadeguatezza della sua statura fisica quello di vacuità delle sue ambizioni sociali. È forse il momento in cui Jan Dite, guardandosi allo specchio, si vede davvero basso, lui che però è stato allievo del maître Skrivanek, ha servito il re d’Inghilterra, ha ricevuto una decorazione dall’imperatore di Abissinia, decorazione che gli “ha dato la forza di scrivere ai lettori questa storia come l’incredibile è diventato realtà”. Una grottesca, straripante, lirica realtà.
di Carlo Danelon