Claudio Musso
pubblicato 4 giorni fa in Recensioni

“Bebelplatz’’ di Fabio Stassi

bruciano i libri ma la letteratura resiste ai suoi sicari

“Bebelplatz’’ di Fabio Stassi

Lo spirito di Goebbels che fa bruciare i libri invisi al regime non è molto dissimile, nota Fabio Stassi, da quello del curato di Don Chisciotte che, entrato furtivamente nella libreria dell’ingegnoso hidalgo mentre quest’ultimo dorme, lo libera dal potere incantatorio di quei testi che lo hanno reso folle o forse capace di pensarsi diversamente dal sentire comune.

Dal 1933 i libri ardono nelle piazze tedesche, di cui Bebelplatz a Berlino è la più celebre, e l’uomo della propaganda nazista parla, di fronte a una folla esultante e a torce ardenti, dell’arte degenerata che ha intaccato la Germania. Ed è quindi giunta l’ora di immolare quei libri dannosi inanellando un’ulteriore tappa di quel lungo autodafé di carta che ha attraversato la storia perché una delle prime mosse di un regime è sempre avere il controllo sulla parola.

In questa lotta contro i demoni non c’è dunque alcun mezzo come il rogo per rendere definitiva la distruzione. I terremoti, per esempio, lasciano dietro di sé delle rovine da cui si può ricostruire un passato. Ma dalla cenere non rinasce niente, se non la fenice di un mito facile poi da oscurare. E questo lo sapevano bene le élite al potere in Germania e anche alcune eminenze universitarie e i propri studenti che, sedotti o abbandonatisi per opportunismo al verbo nazista, abdicano deliberatamente per una scelta di campo antilluministica e si schierano dalla parte del sangue e non più da quella della ragione.

Torniamo al paragone iniziale con i personaggi di Cervantes. Se il curato è Goebbels, chi è il barbiere, complice del primo, nella deliberata epurazione dei libri? I roghi nazisti non sono un evento cui partecipa una folla di facinorosi indottrinati che berciano e insultano i grandi nomi della letteratura, ma il frutto di un lavoro e di un processo ben codificato. Perché prima di appiccare il fuoco c’è sempre una lista, compilata con cura e con parole definitive di condanna, una sorta di profilo bio-bibliografico di un autore in odore di ‘scomunica’, alla quale ci si attiene con scrupolo. Liste che ricordano quelle redatte dal Raj britannico di cui parla Robert Darnton in I censori all’opera (Adelphi, trad. di A. Bottini),dove gli inglesi cercano il pericolo nascosto sotto la sintassi sanscrita o la mitologia vedica. Nella Germania nazista, a conclusione di un esorcismo collettivo e scenografico, il libro viene nominato, convocato a ‘testimoniare’ per l’ultima volta, sapendo che non potrà rispondere, e viene condannato alle fiamme e con esso il suo autore. Le parole del secolo prima di Heine suonano profetiche…

Fabio Stassi, complice un recente viaggio presso gli istituti di cultura italiana in Germania, attraversa quelle piazze che prima hanno ospitato i roghi dei libri e che poi sono state vittime dei bombardamenti alleati venendo divorate da altri fuochi. Con una ricerca, che contempla anche una chiamata in causa di pagine della letteratura della sua formazione di intellettuale, Stassi scopre, non senza sorpresa, quali sono i testi italiani entrati nella libreria murata e inaccessibile del Don Chisciotte nazista, pagine di un «mondo ambiguo e relativo», per citare Kundera, basate su molte verità, libri ameni, termine caro a Sciascia, che vogliono essere intelligentemente dilettevoli ed estranei all’enfasi zelante dell’ordine e quindi agli antipodi di ogni fanatismo.

Bebelplatz (Sellerio 2024), di un autore che è prima di tutto un lettore tra lettori, racchiude pagine redatte con prosa di velluto e gusto per l’istantanea della scoperta, che intarsiano esperienze e riflessioni personali dell’autore e fanno compiere un viaggio dentro la storia, quando un urlo costituisce il carisma di un’immediatezza insofferente di qualsiasi discorso tra soggetti autonomi, e nelle letterature, anche lontane, chiamate a parlarsi quando diventano orfane ma non perdono la loro forza di denuncia e, a loro volta, di micce pronte da innescare.

In quel dilagante fenomeno di massa che fu il rogo nazista dei libri, come in una sorta di cruciverba al contrario da decifrare, ci sono cinque autori italiani, molto diversi tra di loro ma comunque tutti irregolari, che, a osservarli, compongono una mappa piuttosto inedita della nostra letteratura eversiva agli occhi di Berlino: un poeta licenzioso del Cinquecento, uno scrittore per ragazzi, una scrittrice di romanzi rosa e due autori antifascisti del Sud Italia. Come per altre penne, che oggi sono il canone della letteratura in lingua tedesca, si colpiscono i libri per colpire i lettori che, leggendoli, potrebbero aprire la mente, seguire itinerari, produrre una propria riflessione profonda su ciò che li circonda e su sé stessi, maturare un pensiero critico e non solo appiattito sulla contingenza: superare l’ovvio.

Bebelplatz, pur partendo dalla rievocazione dei roghi dei libri proibiti, con un affondo storico sempre documentato, specie nel ‘dietro le quinte’ delle liste nere, allarga il respiro della riflessione sul valore della letteratura specie quando quest’ultima è costretta in ceppi. L’autore fa dialogare, con frequenti rimandi citazionali, Canetti con Collodi, Arendt con Morante, Tabucchi con un libraio svizzero eversivo, e ci ricorda come il potere della memoria e della cultura sia un’arma contro una versione unilaterale dei fatti o del pensiero e come la letteratura possa e sappia spesso restituire l’integrità del reale.

Cos’hanno di indigesto per chi controlla ciò che può essere letto quei cinque autori italiani?

L’eredità di un Rinascimento che esalta l’individuo e qualsiasi vocazione libertaria e anche libertina, che poi è la stessa idea di libertà, stride contro la religione laica del nazismo e così, censurando versi cinquecenteschi di un poeta licenzioso, si elimina la possibilità di una risata libera, piena e gioiosa. Poi c’è uno scrittore, tra i pochi docenti universitari a non firmare l’obbligo di giuramento di fedeltà al fascismo, che propone una ragionevole convivenza nella diversità e un cosmopolitismo mediterraneo praticato da secoli: bruciando i suoi libri, i nazisti fanno idealmente tabula rasa di un ponte gettato tra culture diverse. Tra i reietti c’è anche uno scrittore che, dalla propria scrivania di Torino, porta i lettori in mondi e in avventure lontane senza mai smettere di essere una bandiera libertaria e antiimperialista e la sua rabia contro ogni forma di ingiustizia e la sua educazione alla ribellione fa breccia nei lettori che sentono il peso delle soperchierie.

In Svizzera c’è poi un esiliato che ha sempre mostrato la propria adesione agli ultimi e il cui antifascismo non è più solo legato alla contingenza storica ma diventa un’indignazione ancora più profonda quando osserva che il sopruso e la violenza del potere costituito sono sentimenti fondativi della società e il suo libro diventa, nonostante le difficoltà di pubblicazione, il testo antifascista più letto al mondo negli anni Trenta del Novecento. E infine c’è la più grande scrittrice di romanzi rosa dell’epoca, le cui protagoniste sono uno scandalo perché crudeli, altere, gaudenti e sentimentali, sempre spregiudicatamente libere di esprimere sé stesse e di sfidare le convenzioni, ribaltando in questo modo l’idea di una donna come sposa fedele, madre premurosa e prolifica e accorta massaia.

Ancora oggi ci sono libri che fanno gridare al pericolo e per questo non graditi e probabilmente i roghi, anche virtuali, non cesseranno mai di esistere da parte di coloro che vedono nella letteratura il sovversivo dello status quo sia come momento di introspezione sia di distrazione dai problemi del presente. Quando ci dobbiamo arrestare al ‘che’ delle cose e non al loro ‘perché’. Ma sono spesso libri che ci hanno in qualche modo formato e definito, che ci hanno ‘letto’ nel momento in cui avevamo bisogno di essere decifrati, e, anche se i suoi nemici e sicari dovessero mai farli sparire, la letteratura sarà sempre una luce di verità o comunque una strada da seguire. E su questa funzione della parola scritta Stassi insiste a più riprese.

L’autore ci ricorda la candela con cui si fa luce Don Chisciotte per leggere fino ad impazzire o a immaginarsi altrove, lontano da un luogo ostile, la stessa che usa Mastro Geppetto nel ventre del pescecane per tirare avanti in una situazione opprimente, come quella chiusa in una lanterna, facendo attenzione che non si spenga, che usa Rosso Malpelo quando si inoltra nelle cavità più buie alla ricerca del padre e di una nuova idea di mondo. Sono tutte luci nell’oscurità che sono arrivate fino a noi e che dobbiamo prendere in consegna per farle durare il più possibile. Prima che qualcuno decida di spegnerle perché fanno troppa luca su dove non dovrebbero. Leggendo Bebelplatz saremo più consapevoli che la letteratura, anche la meno nota, è una menzogna che sbugiarda, che strappa il velo alle altre menzogne, quelle intorno alle quali è avvolta la realtà e ne denuda il vero aspetto.