Culturificio
pubblicato 1 anno fa in Letteratura

Borges e la sua invocazione a Joyce

Borges e la sua invocazione a Joyce
Invocación a Joyce
(Jorge Luis Borges – Elogio de la sombra 1969)

Dispersos en dispersas capitales
solitarios y muchos,
jugábamos a ser el primer Adán
que dio nombre a las cosas.
Por los vastos declives de la noche
que lindan con la aurora,
buscamos (lo recuerdo aún) las palabras
de la luna, de la muerte, de la mañana
y de los otros hábitos del hombre.
Fuimos el imagismo, el cubismo,
los conventículos y sectas
que las crédulas universidades veneran.
Inventamos la falta de puntuación,
la omisión de mayúsculas,
las estrofas en forma de paloma
de los bibliotecarios de Alejandría.
Ceniza, la labor de nuestras manos
y un fuego ardiente nuestra fe.
Tú, mientras tanto, forjabas
en las ciudades del destierro,
en aquel destierro que fue
tu aborrecido y elegido instrumento,
el arma de tu arte,
erigías tus arduos laberintos,
infinitesimales e infinitos,
admirablemente mezquinos,
más populoso que la historia.
Habremos muerto sin haber divisado
la biforme fiera o la rosa
que son el centro de tu dédalo,
pero la memoria tiene sus talismanes,
sus ecos de Virgilio,
y así en las calles de la noche perduran
tus infiernos espléndidos,
tantas cadencias y metáforas tuyas,
los oros de tu sombra.
Qué importa nuestra cobardía si hay en la tierra
un sólo hombre valiente,
qué importa la tristeza si hubo en el tiempo
alguien que se dijo feliz,
que importa mi perdida generación,
ese vago espejo,
si tus libros la justifican.
Yo soy los otros. Yo soy todos aquellos
que ha rescatado tu obstinado rigor.
Soy los que no conoces y los que salvas.
Invocazione a Joyce
(Jorge Luis Borges – Elogio dell’ombra 1969)

Dispersi in disperse capitali,
solitari e molti,
giocavamo a fare il primo Adamo
che dette il nome alle cose.
Per i vasti declivi della notte
che confina con l’aurora,
cercammo (lo ricordo ancora) le parole
della luna, della morte, del mattino
e delle altre abitudini dell’uomo.
Fummo l’imaginismo, il cubismo,
le congreghe e le sette
che le credule università venerano.
Inventammo la mancanza di punteggiatura,
l’omissione delle maiuscole,
le strofe a forma di colomba
dei bibliotecari di Alessandria.
Cenere, il lavoro delle nostre mani
e un fuoco ardente la nostra fede.
Tu, nel mentre, forgiavi
nelle città dell’esilio,
in quell’esilio che fu
il tuo strumento aborrito e eletto,
l’arma della tua arte,
hai eretto i tuoi ardui labirinti,
infinitesimali e infiniti,
mirabilmente meschini,
più popolosi della storia.
Saremo morti senza aver scorto
la fiera biforme o la rosa
che sono il centro del tuo dedalo,
ma la memoria ha i suoi talismani,
i suoi echi di Virgilio,
e così nelle strade della notte perdurano
i tuoi splendidi inferni,
le tante cadenze e metafore tue,
gli ori della tua ombra.
Che importa la nostra codardia se c’è sulla terra
un solo uomo coraggioso
che importa la tristezza se vi fu nel tempo
qualcuno che si disse felice
che importa la mia generazione perduta,
quel vago specchio,
se i tuoi libri lo giustificano.
Io sono gli altri. Io sono tutti coloro
che ha riscattato il tuo ostinato rigore.
Io sono quelli che non conosci e quelli che salvi.

James Joyce esordì come poeta e critico; così anche Jorge Luis Borges. Nella sua raccolta giovanile di saggi del 1925 Inquisizioni possiamo ritrovare una delle prime recensioni disponibili in America latina sull’Ulisse di Joyce, pubblicato soltanto tre anni prima e già di fama internazionale.

Qui la deferenza verso la prodezza letteraria dello scrittore irlandese (dalla musicalità all’enciclopedicità dei suoi testi, dalle inedite tecniche monologiche ai virtuosismi stilistici) convive con una denuncia di inadeguatezza nei confronti della monumentalità dell’opera stessa; Borges, che peraltro traduce in spagnolo la parte conclusiva del monologo di Molly, premette immediatamente di non aver «disboscato le settecento pagine che la compongono», ma di averla «praticata a frammenti» e di apprestarsi a raccontarla con quella «avventurosa e legittima certezza che c’è in noi quando affermiamo la nostra conoscenza della città, senza per questo attribuirci intimità con tutte le sue strade».

Premessa che potrebbe stridere con le celebri affermazioni di Joyce, che attendeva dal pubblico la dedizione di una vita alla lettura della sua opera o che considerava il suo ritratto di Dubino così accurato che la città si sarebbe potuta ricostruire esattamente a partire dal suo libro. C’è però da dire che fu proprio dall’instancabile realismo urbano e umano di cui trabocca l’Ulisse che Borges rimase più intimamente colpito:

Nelle pagine dell’Ulisse ferve con sobbalzi da maneggio la realtà totale […] siamo testimoni della presenza reale delle cose con una solidità così convincente. Sono tutte latenti e la pronuncia di qualsiasi voce può far sì che sorgano e ci facciano perdere nel loro improvviso viale.

Dal saggio giovanile sull’Ulisse alla poesia Invocazione a Joyce, inclusa nella raccolta del 1969 Elogio dell’ombra, passano oltre quarant’anni, un trascorso rilevante che lascia il segno nella percezione dell’opera dell’autore irlandese.

Questi versi si rivestono della rievocazione matura e senza tempo del “genio”, in cui il disincanto accompagna l’illusione tanto quanto la nostalgia si smarca dalla sofferenza. Gli anni giovanili riservano a entrambi gli scrittori periodi di lontananza dalle rispettive patrie, «dispersi in disperse capitali», tutti e due in Svizzera – senza mai incontrarsi – durante il primo conflitto mondiale e anche in seguito per curare annosi disagi alla vista che degradarono nella cecità parziale per Joyce e totale per Borges.

L’esilio di Joyce fu non soltanto una condizione coraggiosamente autoimposta e irreversibile, ma anche uno strumento artistico. Nei versi di Borges «Tu, nel mentre, forgiavi / nelle città dell’esilio, / in quell’esilio che fu / il tuo strumento aborrito e eletto» rivediamo i passaggi del Ritratto dell’artista da giovane in cui Stephen Dedalus si dichiara forgiatore della coscienza increata della sua razza, con le sole armi del silenzio, dell’astuzia e dell’esilio.

Sono infatti gli anni delle prime avanguardie, durante i quali si giocava «a fare il primo Adamo che dette il nome alle cose», delle sperimentazioni artistiche di inizio Novecento, dalle cui correnti artistiche i due autori si lasciavano lambire senza farsene mai trascinare (Borges cita l’imagismo ed Ezra Pound, uno dei suoi massimi esponenti, fu amico e promotore di Joyce); ma Dante stesso, poeta carissimo a Borges e a Joyce, spiegò nella Commedia come il povero Adamo, la cui prima lingua si estinse ben prima dei tempi di Babele, non resistette che mezza giornata alla solitudine del paradiso terrestre, finché Dio gli fece dono di Eva, la donna a cui lui poté consacrare la sua prima parola detta, quella contenente il proprio nome: “Madam, I’m Adam”, è la formula palindroma che Joyce riporta nel 7° episodio dell’Ulisse.

Ma per quanto fosse amante dei labirinti e dei dedali, Borges stesso non può non ammettere quanto, per lui, quelli di Joyce fossero «… ardui labirinti, / infinitesimali e infiniti, mirabilmente meschini, / più popolosi della storia».

Nella sua critica del 1939 a Finnegans Wake, per quanto convinto che «Joyce sia uno dei più grandi scrittori del nostro tempo. Sul piano della lingua, è forse il più grande […] Nell’Ulisse vi sono frasi, vi sono periodi per nulla inferiori ai più famosi di Shakespeare», allo stesso modo rilascia – come tanti altri artisti e intellettuali all’epoca – le sue nette riserve verso lo sperimentalismo estremo di Finnegans Wake: «In questo vasto volume, tuttavia, l’efficacia è un’eccezione. La Veglia di Finnegan è un concatenarsi di giochi di parole costruiti in un inglese onirico e che è difficile non definire falliti e incompetenti».

Nelle Ultime conversazioni del 1984-1986 con Osvaldo Ferrari, Borges ipotizza con determinazione che «Joyce ha voluto attuare lo stile più indecifrabile e complesso che fosse dato immaginare: ebbene, quello stile presuppone tutta la letteratura inglese che l’ha preceduto […] Credo veramente che Joyce abbia pensato che Ulisse e il Finnegans Wake sono libri che mettono il punto finale. Joyce con quei libri pensa di aver messo fine a tutta la letteratura che l’ha preceduto. Deve averlo pensato, ma poi la letteratura ha continuato a esistere».

Borges in questa sua poesia-invocazione sospende e supera ogni giudizio e questione di principio e si rivolge a Joyce per confessare a sé stesso che le rivoluzioni letterarie nascono da un confronto dialettico con le tradizioni e comportano – inevitabilmente – che le tradizioni stesse nel tempo assimilino quei confronti dialettici; il linguaggio resta una manifestazione della storia e ogni  innovazione che contro la storia si muova, dalla storia stessa sarà poi nuovamente accolta: «La storia non ci dà tregua», conferma sempre nelle conversazioni sopracitate, e vi si troveranno accolti anche le false piste, le mediocrità dell’arte e le sue rivoluzioni, le codardie, le tristezze, le generazioni perdute, se «l’ostinato rigore» di «un solo uomo coraggioso» le giustifica e le riscatta con i suoi libri.

«Io sono gli altri / […] Io sono quelli che non conosci e che salvi», sono i versi che chiudono il componimento poetico di Borges, evidente eco delle metempsicosi che Joyce introdusse nell’Ulisse («Lui, c’est moi» pensa Dedalus nel 3° episodio) ed estremizzò infine proprio in Finnegans Wake, dove oniricamente ogni identità si confonde, si sovrappone e si trasforma in un’altra. Nelle Inquisizioni da cui siamo partiti, il Borges giovane aveva già lucidamente individuato nell’opera di Joyce un unico piano dove si gioca la simultaneità senza distinzioni fra soggetto e oggetto, dal «capriccioso sogno dell’io al comune sogno di tutti».

Articolo e traduzione di Andrea Carloni