Brevi considerazioni personali su una poesia di Paul Celan
Quanti astri, a noi
dati. Io ero,
allorché ti guardai – quando? –
ero fuori, fra
gli altri mondi.
Inizia così la poesia Soviel Gestirne (in italiano Quanti astri nella traduzione di Giuseppe Bevilacqua) di Paul Celan. Contenuta nella raccolta dedicata al poeta Osip Mandel’štam, La rosa di nessuno (Die Niemandsrose), è un testo complesso e oscuro, come tutta la produzione poetica dell’autore rumeno, non a caso molto caro a Jacques Derrida, che nel 1986 pubblicò una conferenza su una delle sue poesie, Schibboleth.
Celan apre il componimento con un enjambement, ponendo l’accento sul pronome noi.
Dalla poetica di Mandel’štam e forse dalle letture giovanili di Martin Buber, Celan riprende l’idea di una poesia sempre basata su un dialogo con l’Altro.
In questi versi la comunicazione si instaura attraverso il senso della vista. L’io guarda l’Altro, in un’azione che sembra essere univoca e non reciprocata, ed è proprio attraverso questo guardare che esce dalla sua condizione di esclusione: Celan descrive questa differenza con un’efficacissima anadiplosi.
Colpisce il fatto che l’oggetto dello sguardo non sia quello che Barthes definirebbe un’immagine di un corpo in situazione, dal momento che rimane passivo: solamente il soggetto agisce, con un’azione al passato remoto, mentre l’altro, fermo, ai margini, forse ascolta, ma sicuramente rimane muto.
Oh queste vie, galattiche,
oh questa ora, che sospinge
fino a noi le notti
a gravare sui nostri nomi. Non è
vero, lo so, che noi
vivessimo, c’era soltanto
un cieco respiro che andava
tra Laggiù e Non-Qui e Talvolta;
sfrecciava, cometa, un occhio
verso una terra estinta, nelle forre
dove andava a spegnersi, e lì stava,
mammella superba, il Tempo,
in cui, in su e in giù
e oltre, cresceva ciò
che è o fu o sarà -,
Dopo alcuni versi di descrizione del cielo e delle notti che gravano sui nomi dei due, pesanti e lunghe, Celan arriva al centro della poesia: la vita non sembrava essere interamente vera finché non c’era stata la visione. L’io è diventato io solo nel momento in cui si è realizzato l’incontro con l’Altro.
Quanto Celan scrive per Mandel’štam può essere detto per questa stanza:
Le cose s’accostano l’un l’altra, ma ancora in codesto stare insieme risuona l’interrogativo circa il luogo donde vengono e dove vanno – un interrogativo “sempre aperto”, “mai giunto al termine”, orientato verso quanto è aperto e acquisibile, vuoto e vacante.
Le immagini infatti si affastellano tra loro, dense, in una lingua complessa: il respiro è cieco, in un’opposizione sinestetica, e distende il suo percorso verso un Laggiù (spazio più o meno determinato, ma lontano) e un Non-qui (negazione di uno spazio vicino) che si contrappongono al Talvolta (espressione temporale). Lo sguardo invece è vigile, acceso, e si rivolge verso la terra estinta – forse quella promessa?
Celan spezza le frasi e dalle parole emerge la violenza del dolore che attraversa tutta la sua produzione.
Il tempo è un tema centrale nella poetica dell’autore, tanto da essere accennato nella maggior parte dei suoi componimenti, spesso anche sotto forma di data e di ora: in questa poesia il Tempo, che è come una mammella superba nel quale vivere ogni realtà, si fa quasi spazio da attraversare, da salire o da scendere. Il filosofo Franz Rosenzweig, molto apprezzato da Celan, divideva il tempo nel passato della creazione, nel presente della rivelazione e nel futuro della redenzione: ciò che il poeta in questa poesia sintetizza con tutto quello che è o fu o sarà.
io so,
io so e tu sai, noi sapevamo,
non sapevamo, noi lì
c’eravamo, e no,
e talvolta, se puramente il Nulla
stava fra noi, sapemmo andare
a un perfetto incontro.
Se l’io non rappresenta solamente Celan, ma l’Uomo intero (come notò nel 1959 il critico letterario Martin Anderle) è il tu che risulta più difficile da decifrare. Si può infatti identificare in maniera generica, in un altro (amato, parente, amico, sconosciuto) e leggere il tutto nell’incontro legato al sapere e alla presenza secondo Barthes, che vede in ogni istante dell’incontro un momento per scoprire nell’altro un altro me stesso.
Allo stesso tempo però non si può non pensare ad un significato più profondo, che emerge tra le righe, legato alla ferita sempre aperta e dolorosa della Shoah: Celan sembra rivolgersi ancora una volta al popolo ebraico, a chi ha dovuto soffrire tra «Laggiù» e «Non-Qui» e «Talvolta», o, anche se con la minuscola, a Dio stesso, che come scritto nella poesia iniziale della raccolta tutto questo sapeva.
L’anafora di «io so» si scontra con il «tu sai» per diventare «noi sapevamo». E questo sovrapporsi di pronomi in un’unica azione non è un meccanismo sconosciuto al poeta, che nella poesia iniziale della stessa raccolta, Era terra dentro di loro, scrive:
io scavo, tu scavi, e scava anche il verme, / e ciò che lì va cantando, dice: Essi scavano.[…] Tu scavi ed io scavo, scavando ti raggiungo.
L’io e l’Altro – sta forse al lettore scegliere se interpretarlo nel significato latino di alter o di alius – formano una coppia di unione, una monade, nel momento in cui si trovano nel perfetto incontro che può avvenire solamente nell’utopico luogo creato dalla poesia.
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