«Cahiers du cinéma»
nascita, protagonisti e filosofia
Alla vigilia della stesura di un articolo che vorrebbe allo stesso tempo generico e preciso, esauriente e documentato, il critico cinematografico comincia a invidiare al suo confratello letterario il privilegio della biblioteca dove fanno tappezzeria pesanti volumi di opere complete consultabili e citabili a piacimento (François Truffaut).
I telefoni che squillano, l’odore deciso di tabacco, le locandine dei film, le foto degli attori e delle attrici appese al muro, le accese discussioni, l’ammasso di carta e di giornali sulla scrivania: nell’aprile del 1951 esce a Parigi il primo numero della rivista cinematografica «Cahiers du cinéma». Uno degli eventi che ha cambiato la storia del cinema europeo e internazionale.
Fondata da André Bazin, Jacques Doinel-Valcroze e Jean-Marie Lo Duca – una costola di «La revue du cinéma» (1946-1949) – la rivista ha piantato i semi teorici e cinematografici della Nouvelle vague. D’altronde, faranno subito parte della redazione figure come François Truffaut, Jean-Luc Godard, Eric Rohmer, Jacques Rivette, Alexandre Astruc e molti altri nomi di rilievo.I protagonisti dei «Cahiers du cinéma» con il loro carisma, la competenza derivata da una conoscenza profonda delle pellicole, l’arguzia e un pizzico di sana insolenza hanno rivoluzionato la teoria del cinema, soprattutto riconoscendo la centralità del regista, considerato vero e unico autore. La caméra-stylo e la politique des auteurs sono gli elementi cardine di questa teorizzazione, formulata con l’inchiostro sulle pagine cartacee della rivista e trasformata in immagini con la camera da presa.
[…] A Gance hanno dato del “fallito” e in tempi recenti del “fallito geniale”. Ebbene, i detrattori intorno a Gance pullulavano ma, incapaci com’erano di intaccare il suo genio, sono stati altrettanto incapaci di rovinarlo. Adesso si pone la questione di stabilire se si può essere allo stesso tempo falliti e geniali. Io credo addirittura che il fallimento sia il talento. Riuscire è fallire. Voglio in fin dei conti difendere questa tesi: Abel Gance autore fallito di film falliti. […] “Sir Abel Gance”, come dice Becker! Non lo ritroveremo tanto presto nel cinema mondiale, un uomo di tanta levatura, pronto a sconvolgere il mondo […] (François Truffaut, «Cahiers du cinéma», n. 47, maggio 1955).
La politica degli autori è diventata un’espressione celebre o ripercorrerla attraverso gli articoli dei Cahiers è come seguire l’inizio di una grande storia, una sorta di radice creativa, in cui misurare l’opinione del pubblico da allora a oggi.
Il padre di questo movimento che riconosce il regista come vero e proprio autore è sicuramente Truffaut – figlioccio spirituale di Bazin. Tra il 1954 e il 1955, ha reso questo concetto uno strumento, una protezione, contro un certo tipo di cinema francese “di qualità” della metà degli anni Cinquanta: quello denominato ironicamente cinéma de papa. Il primo settembre del 1954, su «Arts», Truffaut pubblica un articolo che elogia un regista allora piuttosto dimenticato: Abel Gance. È in questo testo che appare per la prima volta l’espressione politique des auteurs. Per il giovanissimo critico parigino esiste un assurdo controsenso nella critica del periodo: si elogiano le produzioni mute di Gance e si criticano le sue pellicole parlate. In altri termini, sostiene Trauffaut, i film parlati di Gance sono figli dello stesso genio registico di quelli muti e di conseguenza non si può esaltare uno e abbattere l’altro, perché sarebbe una banale contraddizione. Ma questa è solo una delle tante riflessioni messe in evidenza dai critici e cinefili dei «Cahiers».
Infatti, l’apprendistato più coerente per passare dietro la camera da presa è quello di recensire film degli altri immaginando di girare i propri. L’esercizio critico non è solo una discussione amichevole tra colleghi, ma un lavoro giornalistico che trova la sua culla ideale nei «Cahiers du cinéma», diventati poi la più autorevole rivista cinematografica francese almeno fino agli anni Sessanta, che tra i suoi collaboratori vede la maggior parte degli autori della Nouvelle vague.
A tal proposito si possono prendere in considerazione i critici-registi meno noti al grande pubblico, che con le loro prime opere hanno contribuito a questa ondata, come Jacques Doniol-Valcroze con Le gattine (L’eau à la bouche, 1960), Claude Chabrol con Le beau Serge (1959), Jacques Rivette con Parigi ci appartiene (Paris nous appartient, 1961), Eric Rohmer con Il segno del leone (Le signe du Lion, 1959) o La preda per l’ombra (La proie pour l’ombre, 1960) di Alexandre Astruc. Proprio quest’ultimo, con un articolo che è diventato una sorta di manifesto di questo nuovo cinema, riassume in maniera lucida il discorso nella sua genesi e nel suo sviluppo:
Il cinema sta diventando un mezzo d’espressione, ciò che sono state tutte le arti prima di esso, in particolare la pittura e il romanzo. Diventa a poco a poco un linguaggio, cioè una forma attraverso la quale un artista può esprimere il suo pensiero, quanto astratto possa essere, o tradurre le sue ossessioni esattamente come avviene nel campo del saggio o del romanzo. Il cinema si staccherà dalla tirannia del visuale, dell’aneddoto immediato, dell’immagine per l’immagine, per diventare un mezzo di scrittura così docile e così sottile come quello del linguaggio scritto. Il cinema sta trovando una forma con cui si farà linguaggio così rigoroso che il pensiero potrà scriversi direttamente su pellicola (Alexandre Astruc, Naissance d’une nouvelle avant-garde: la caméra-stylo, «L’écran français», n. 144, marzo 1948).
Tornando alla critica della rivista parigina, uno dei tanti pregi è stato quello di valorizzare i registi che, oggi, definiamo maestri. Jean Renoir, Roberto Rossellini, Michelangelo Antonioni, Abel Gance, Kenji Mizoguchi, Ingmar Bergman, Alfred Hitchcock, Fritz Lang e Howard Hawks sono solo alcuni dei nomi amati da questi visionari critici francesi.
Gli articoli e le recensioni dei «Cahiers» legano in maniera viscerale la stima per un regista e l’approfondimento del suo microcosmo tecnico e teorico, ovvero la percezione di cosa sia il cinema e di cosa sia composto. Analisi che può trovare nei termini ‘autore’ e ‘messa in scena’ i suoi punti fondamentali. La politique des auteurs si può tradurre quindi nel modo in cui il critico stringe un patto spirituale con la produzione di alcuni registi – sposa globalmente la sua causa e difende il suo lavoro – per comprenderne i meccanismi, il pensiero e per metterne in risalto il talento.
D’altronde, i registi appena citati aderiscono proprio a questa visione, sono figure a cui i giovani critici hanno dato l’opportunità di comunicare la loro vocazione per la camera da presa, usata come la penna di uno scrittore.
Quando un uomo (Alfred Hitchcock) dopo trent’anni, e attraverso cinquanta film, racconta pressappoco sempre la stessa storia – quella di un’anima alle prese con il male – e mantiene lungo questa linea unica lo stesso stile fatto essenzialmente di una maniera esemplare di denudare i personaggi e di immergerli nell’universo astratto delle loro passioni, mi sembra difficile non ammettere che ci troviamo una volta tanto di fronte a un’autentica rarità, tutto sommato, in questa industria: un autore di film (Alexandre Astruc, «Cahiers du cinéma», n. 39, ottobre 1954).
Provando ad attualizzare il discorso, la nozione critica dell’autore è affermata ancora oggi, quando si menziona il cinema “d’autore” non a caso sappiamo che si riferisce a qualcosa che va oltre il semplice intrattenimento. Senza entrare troppo nel merito: nell’immaginario comune dei cinefili, l’autore solitamente è un regista considerato tale sia dalla critica che dal pubblico, non per un solo film ma per il percorso cinematografico.
Tornando alla rivista, il flusso teorico sulla politica degli autori non si può considerare, nella redazione dei «Cahiers», come un unico blocco di pensiero. Ovviamente le divergenze su questo tema e su altri, cinematograficamente fondamentali, hanno creato un alone di discussioni costruttive e accese suggestioni, elevando il livello della produzione critica. Peraltro, il passaggio dalla prima generazione del cinema francese alla Nouvelle vague – partita ideologicamente con I quattrocento colpi (Les quatre-cents coups, 1959) – è proprio il frutto di questo tipo di sommossa culturale interna, un movimento studiato, elaborato e rivoluzionario partito dalla penna e dalla macchina da scrivere per arrivare fino alla macchina da presa di Truffaut e Godard.
Le grane che vado a cercarmi presso i miei compagni, quelli più convinti della fondatezza della loro politica degli autori, costituiscono una controversia che non mette in discussione l’orientamento generale dei «Cahiers». Quali che siano le nostre differenze di opinioni sulle opere e sui creatori, gli entusiasmi e le avversioni che ci accomunano sono abbastanza numerosi e abbastanza forti da suggellare il nostro gruppo, e se ritengo di non concepire il ruolo dell’autore nei film allo stesso modo di Truffaut e Rohmer, questo non impedisce che, nella misura in cui credo anche io alla realtà del concetto di autore, generalmente condivida anche le loro opinioni, se non le loro passioni (André Bazin, «Cahiers du cinéma», n.70, aprile 1957).
Queste parole, scritte dal fondatore della rivista Bazin, si ricollegano al discorso appena fatto: una redazione costituita da un sano confronto ideologico ma coniugata dalla stessa identica passione, quella per il cinema e per il desiderio di mettere nero su bianco la propria opinione a favore della creazione filmica. Una critica sul cinema della realtà – sulla tecnica, come il piano-sequenza, la profondità di campo o il montaggio – che non è oppressa dal peso degli schemi e dei preconcetti ma è più libera, in grado di arrivare alle menti del pubblico e soprattutto a quelle degli stessi autori.
In effetti, Ingmar Bergman è il cineasta dell’istante. Ognuno dei suoi film nasce con una riflessione del protagonista sul momento presente, approfondisce questa riflessione mediante una sorta di smembramento della durata, un po’ alla maniera di Proust, ma con più forza, come se si fosse moltiplicato Proust sia per Joyce che per Rousseau, e diviene finalmente una gigantesca e smisurata meditazione da un’istantanea. Un film di Ingmar Bergman è, se vogliamo, un ventiquattresimo di secondo che si trasforma e si estende per un’ora è mezzo. È il mondo tra due battiti di palpebra, la tristezza tra due palpiti di cuore, la gioia di vivere tra due battiti di mani (Jean-Luc Godard, «Cahiers du cinéma», n.85, luglio 1958).
Queste righe di Godard rappresentano l’anima di quello che sono stati i «Cahiers du cinéma» e di quello che hanno lasciato. Le parole diventano un biglietto di sola andata per intraprendere un viaggio che va ben oltre le immagini in movimento: aprono un nuovo mondo intimo di analisi e riflessioni sull’autore, sul cinema e sulla profondità del messaggio che riescono a trasmettere le inquadrature e il disegno filmico. La vera critica cinematografica: poetica, efficace, colta.
Riferimenti bibliografici
Antoine de Baecque, Cahiers du cinéma. La politica degli autori vol. 2, minimum fax, 2010.
André Bazin, Che cosa è il cinema? Il film come opera d’arte e come mito nella riflessione di un maestro della critica, Garzanti, 2012.
Giorgio De Vincenti, Lo stile moderno. Alla radice del contemporaneo: cinema, video e arte, Bulzoni, 2013.