Calvino rilegge “Forse un mattino andando” di Montale
Forse un mattino andando in un’aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore da ubriaco.Poi, come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto
alberi, case, colli per l’inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.
Questa celeberrima lirica di Montale appartiene alla raccolta poetica Ossi di seppia, pubblicata per le edizioni liberali di Piero Gobetti (1925). Dagli Ossi trapela una visione della realtà ormai soffocante, priva di valori e dominata dal male di vivere. Del resto, con gli Accordi, già da adolescente Montale si incammina sulla strada tracciata da Baudelaire sotto il segno del simbolismo e del decadentismo. Con il passare del tempo elaborerà il pensiero secondo cui la realtà è come una sorta di rete che imprigiona l’individuo e lo forza alla consapevolezza di un male connaturato ed esistenziale. Quale può essere allora la scappatoia? Montale prefigura per sé una fuga immobile, una resistenza passiva che cova il frequente dubbio che il mondo stesso possa rivelarsi una pura illusione. Ed è proprio in Forse un mattino andando in un’aria di vetro che esprime più sentitamente la sua visione metafisica del mondo, attraverso una chiara riscrittura in chiave novecentesca del celebre mito della caverna di Platone.
Un’interpretazione molto personale di quest’Osso è quella di Italo Calvino, capace di stupire anche come critico – a tal proposito ha sostenuto più volte che un testo poetico vive quando ogni lettore può leggerlo a modo proprio, anche se distante dalla volontà dell’autore.
Montale occupa nella produzione saggistica calviniana un posto di grande rilievo: i due erano legati da un intenso rapporto di stima reciproca; in un’intervista Calvino afferma che «Montale fin dalla mia adolescenza è stato il mio poeta e continua a esserlo». Ed è in occasione dell’ottantesimo compleanno del poeta ligure che decide di reinterpretare Forse un mattino andando in un’aria di vetro (saggio poi confluito nelle Letture montaliane, Bozzi Editore, 1977).
Calvino inizia sottolineando come la poesia diverga rispetto agli altri componimenti di Ossi di seppia. La raccolta è infatti dominata da oggetti d’uso quotidiano e non, lo stesso paesaggio ligure diventa un personaggio; il tutto è pervaso da luci e ombre che ricordano la pittura metafisica di De Chirico. Forse un mattino andando è invece privo dei consueti oggetti ed emblemi naturali montaliani, e piuttosto «è una poesia d’immaginazione e di pensiero astratti».
In uno spazio non ben definito – che potrebbe essere un qualsiasi luogo – è l’atmosfera a far scaturire il miracolo, o meglio, secondo l’etimo latino, l’evento mirabile. La luce rende le cose talmente nitide da farle sembrare surreali, oniriche quasi. Ecco allora che l’aria-vetro diventa la componente fondamentale della poesia, un elemento che genera concretezza, determinatezza e successivamente sospensione, senso del nulla e del vuoto. Calvino qui fa un paragone con l’Infinito leopardiano, dove (come sottolineato nelle Lezioni americane) avviene l’esatto opposto e dunque è l’indeterminatezza a provocare smarrimento.
Calvino si sofferma poi sull’uso delle rime poiché il poeta se ne avvale ampiamente, soprattutto negli Ossi, raccolta di liriche solo apparentemente tradizionali, ricca di rime interne o ipermetre; proprio a queste ultime affida il compito di simboleggiare una realtà quasi vacillante, sbilenca, che tenta di aggrapparsi, con tutta sé stessa, a una perfezione ideale. Perfezione che, di fatto, non può essere raggiunta.
In Forse un mattino andando in un’aria di vetro, al secondo e al quarto verso, è presente la rima ipermetra miracolo–ubriaco, una combinazione essenziale per il senso ultimo della lirica. L’evento mirabile provoca dunque un terrore di ubriaco: la paura e il senso di vertigine di chi carpisce il vuoto, il nulla.
E poi, ancora, la ricomparsa repentina del tutto sullo schermo di un cinematografo, dove la realtà è un’immagine proiettata e non ha consistenza di per sé. Negli ultimi versi è brevemente descritto il destino del poeta-filosofo che, tornando tra gli uomini omologati alla massa, eviterà di esprimersi sulla sua scoperta, consapevole del fatto che nessuno lo crederà.
Una volta terminata l’analisi del componimento, per Calvino la questione è piuttosto semplice: fin dalle origini l’uomo vive parzialmente all’oscuro di ciò che ha dietro, non può mai sapere concretamente cosa c’è alle sue spalle perché gli occhi sono rivolti in tutt’altra direzione. E viceversa, se si ci volta indietro, non si saprà mai cosa in quell’istante ci saremo lasciati alle spalle.
Insomma, ruotiamo su noi stessi spingendo davanti ai nostri occhi il nostro campo visuale e non riusciamo mai a vedere com’è lo spazio in cui il nostro campo visuale non arriva.
Invece l’io di Forse un mattino andando riesce incredibilmente a compiere come un intero giro su sé stesso, talmente in fretta da voltarsi dove il suo campo visuale non ha ancora occupato fisicamente lo spazio. È solo così che può assistere alla rivelazione, al miracolo. La poesia viene allora paragonata a un racconto di Borges, tratto dal Manuale di zoologia fantastica (1957). Lo scrittore argentino riporta la leggenda dello hide-behind, una creatura notturna fantastica appartenente al folclore americano. Tale animale veniva additato come il responsabile della scomparsa dei taglialegna quando non rientravano più dal bosco. Il fatto strabiliante è che la creatura non è mai stata avvistata da nessun uomo perché, come il nome lascia presagire, è nota per la sua capacità di nascondersi.
In particolar modo, precisa Borges, si muove sempre dietro le spalle umane. Se proviamo a voltarci di scatto, lo hide-behind sarà sempre dietro di noi a causa della sua innata velocità. Vien da sé, pertanto, che il protagonista della poesia di Montale è quell’uomo che, contro ogni aspettativa, riesce a voltarsi e ad afferrare con lo sguardo l’hide-behind. Il timore è pressoché enorme poiché esso coincide nondimeno con quel vuoto, quel nulla di cui è fatto il mondo.
Capire è tutta questione d’essere veloci, rivolgersi tutt’a un tratto per sorprendere lo hide-behind, è una giravolta su sé stessi vertiginosa ed è in quella vertigine la conoscenza.
Si potrebbe obbiettare che questa ipotesi sia valida solo in un mondo non ancora immerso nel progresso tecnologico: l’invenzione dell’automobile, dotata di specchietto retrovisore, induce Calvino a sviluppare altre considerazioni. L’uomo che guida, oltre che guardare davanti a sé, è come se fosse munito di un occhio anche dietro; lo specchietto racchiude il mondo, la strada che ci si lascia alle spalle… sembra quasi di poter beneficiare contemporaneamente di due campi visivi. Ma questo, come precisa, è solo un azzardo: del resto, seppur il protagonista di Forse un mattino andando stesse guidando in un’aria di vetro, voltandosi e guardando nello specchietto non vedrebbe mai solo il tratto di strada che abbandona − il passato − ma piuttosto l’infinito abisso del vuoto. Vuoto che, come in una chiusa perfetta, va ad annientare la stessa concezione poetica, incapace di offrire soluzioni o formule consolatorie.
di Carmela Viscardi