Alice Figini
pubblicato 13 ore fa in Recensioni

“Casa che eri” di Giorgio Ghiotti

l’imperfetto della giovinezza perduta

“Casa che eri” di Giorgio Ghiotti

Una malinconia ineffabile ammanta le pagine di Casa che eri di Giorgio Ghiotti (Hacca edizioni, 2025), resa concreta dall’imperfetto utilizzato nel titolo. L’imperfetto è il tempo della durata, si riferisce a eventi e ad azioni abituali, continuative e ripetibili, di cui è impossibile individuare precisamente l’inizio e la fine.

Quando finisce la giovinezza? È questa la domanda sottesa che il romanzo ci propone narrandoci la storia di Aldo, quarantenne disilluso, e della sua amicizia con Luisa.

L’acquisto di una casa, in via della Renella a Trastevere, rappresenta il principio e anche la soglia necessaria per l’avviamento della trama: l’attraversamento di quel confine, lo spazio domestico, implica l’inizio dell’età adulta – e tutti gli inizi, si sa, portano con sé il presagio di una fine. Ben presto Aldo si accorge che la nuova casa non è un nido, ma una gabbia, perché lo reclude nella sua solitudine e in un nuovo cinismo nel quale a stento si riconosce. Allora non gli resta che ricordare i tempi andati, le avventure della giovinezza vissuta in simbiosi con Luisa, presenza-assenza ora sempre più sfuggente, soprattutto dopo il suo incontro con Alessio Patriarca «ci è voluto un uomo per metterci in crisi, per rivelarci». Ecco l’altro grande tema del romanzo: quanto sappiamo delle persone che amiamo? È possibile individuare il momento, l’istante, in cui chi ci sta accanto diventa per noi inconoscibile?

Nell’inseguire il fantasma di Luisa, nel tentativo di decifrare l’enigma di questa ragazza divenuta donna all’improvviso, in realtà Aldo insegue sé stesso, facendo i conti con l’adulto disilluso che è diventato. Pare di udire sullo sfondo le note di una famosa canzone di Battisti: «O mare nero, o mare nero, o mare ne-, tu eri chiara e trasparente come me», il cui significato si apprende solo una volta cresciuti, aver sperimentato sulla propria pelle la perdita dell’innocenza, proprio come accade al protagonista di Casa che eri.

Non è più il tempo degli ideali che infiammano la testa o delle passioni tumultuose che bruciano lo stomaco; eppure era appena ieri. Nell’oggi Aldo si sente immerso in una dimensione diversa. Il lavoro al giornale lo annoia, le giornate si dipanano lente e sempre uguali, si muove in un’apatia paludosa che apparentemente solo il ricordo di Luisa riesce a scuotere:

Negli anni ho provato a ricordare dove fu che incontrai Luisa per la prima volta. È probabile che sia stato a Rimini, nella sua Rimini estiva. 

La voce narrante di Aldo, quasi pasoliniana, si muove in bilico tra passato e presente in un tempo frammentato, a tratti lento, a tratti velocissimo. L’identificazione donna-città guida la storia, come accade in Parthenope di Paolo Sorrentino: Luisa è «la ragazza di Rimini» anche a Roma, persino ora che è una donna sposata e vive in una grande casa lontana dal mare; nel luogo della riviera romagnola si condensa il tempo perduto e irripetibile della giovinezza che è quanto il narratore ritrova nella figura di Luisa, divenuta improvvisamente un mistero ai suoi occhi. Sono finite le confidenze, quell’eterno parlare di ragazzi, cotte e sentimenti fino a tardi sulla terrazza; per Aldo, che è omosessuale, Luisa è amica, sorella, madre, un simulacro intoccabile d’affetto, ma ora le loro solitudini non combaciano più.  

Pare di avvertire l’eco della frase sorrentiniana: «L’amore, per provare a sopravvivere, è stato un fallimento». Anche Luisa, proprio come Parthenope, è un personaggio sfuggente: non si riesce mai a indovinare a cosa stia pensando, è rinchiusa nel suo segreto e la sua immagine si fa metafora.

Qualcosa in Luisa è cambiato, ma Aldo non riesce a individuare esattamente cosa e, mentre guarda lei, scruta dentro sé stesso:

Ha abbassato un calzino e si è grattata la caviglia, inclinando la testa per guardarmi meglio. Fosse stata un quadro l’avrei chiamato “bambina dentro un mistero”.

Luisa, così come altre figure del romanzo, è al contempo donna reale – irrequieta, fragile – e simbolo; perché ciò che infine Aldo sarà costretto ad ammettere è di non conoscerla davvero. Ecco la grande disillusione nella quale forse individuare il principio dell’età adulta: il tradimento come rivelazione, come disvelamento. Alessio Patriarca, il cui arrivo è annunciato in fase incipitaria come il vero punto di rottura, si rivela in fondo il capro espiatorio sul quale convergono le tensioni latenti, le gelosie nascoste, le tensioni represse o inespresse. Non è lui – il lettore lo sa – l’antagonista della nostra storia, la causa del disequilibrio: in Casa che eri il vero nemico è il tempo che scorre inarrestabile con la sua azione corrosiva, stabilendo la vita e la morte a sentenza conclusa.

L’imperfetto del titolo, lo abbiamo detto, si fa sentinella, mostrandoci l’autentica chiave di lettura del romanzo: è l’imperfetto della giovinezza perduta, il racconto di come le cose che un tempo conoscevamo bene sono inspiegabilmente cambiate – e della nostra incapacità di accettarlo. Inseguendo Luisa, Aldo cerca di eludere l’evidenza della propria solitudine rivelatagli clamorosamente da una casa divenuta prigione. La verità è che quella casa, con le sue solide quattro mura, gli ha mostrato la fine delle possibilità offerte dall’esistenza al suo primo sbocciare.  

La musica della nostra giovinezza imperfetta come un’orchestra che si accordi prima di andare in scena per la prova generale, l’allegria stonata e fiabesca, quell’amare maldestro, eccessivo, totale, a cento all’ora, frenate e accelerate continue, entusiasmi e paure.

Lo stile limpido di Giorgio Ghiotti ci restituisce un ritratto color seppia del mondo contemporaneo: la nebbia esistenziale del protagonista è rischiarata dal colorato carnevale di un’umanità cangiante e multiforme, cui fa da sfondo una Roma malinconica fatta di teatri di quartiere e passeggiate sul Lungotevere in un autunno senza fine. Attorno al protagonista si muove un gruppo eterogeneo di amici, diversi per età e professione: la coppia formata dall’attempato Vittorio e dal giovane artista Michel; la giovane Caterina alle prese con una gravidanza inattesa; l’anziana Patrizia che si improvvisa madre e abbandona una grande villa a Tivoli per adempiere al suo nuovo compito di cura. Tutti attraversano il grande palcoscenico della vita, cercando di non cadere, di non fallire. La loro lunga attesa comune in un corridoio d’ospedale, tentando di farsi forza a vicenda dinnanzi all’inevitabile, ricorda una memorabile scena di Saturno contro di Ferzan Ozpetek (2007).

Proprio come in quel film, nel libro scorre sottotraccia una riflessione molto attuale sul concetto di famiglia: la solitudine della ragazza-madre, Caterina, attira come un centro gravitazionale le attenzioni e l’affetto degli altri personaggi, creando così una grande famiglia sgangherata, caotica e turbolenta come in fondo sono tutte le famiglie, dove si litiga spesso e ci si ama molto, anche se in un modo sempre imperfetto. Queste persone, con le loro stravaganze e le loro difficoltà, sono la vera casa di Aldo, l’antidoto al suo senso di smarrimento.

La duplice valenza del titolo Casa che eri si riscontra proprio in questa riflessione: se la ricerca spasmodica di Luisa incarna il tentativo fallimentare di afferrare un tempo perduto, l’attesa di Dacia, la figlia di Caterina, rappresenta l’imprevedibilità del presente che presto diventa passato; sono i due binari paralleli lungo i quali si muove la storia, in bilico tra promessa e nostalgia.

Nell’immagine della casa, la cui soglia solenne apre e chiude il romanzo, ritroviamo un tema ricorrente nella scrittura di Giorgio Ghiotti: già nelle Cattività domestiche (Fve editori, 2022) l’autore aveva esplorato il tema della famiglia come gabbia e anche in questo libro l’idea, curiosamente, si ripropone, mostrandoci lo spazio domestico come prigione cui si oppone l’immagine delle gabbie vuote create da Michel per vezzo artistico. Aldo metterà una di quelle gabbie nel suo giardino e, con il trascorrere delle stagioni, la scoprirà arrugginita. Le gabbie per colombi attraversano l’intero racconto come una metafora tangibile: il protagonista ha comprato casa, eppure sente di non essere «a casa» da nessuna parte, i suoi ricordi domestici sono attraversati dal tradimento e dall’abbandono del padre «quando c’erano ancora un padre e una porta a segnare il confine tra la loro stanza e il mondo fuori». Ritorna il classico ritornello tolstojano secondo cui «Ogni famiglia infelice è infelice a modo suo» eccetera, ma con una variante: ci sono diversi modi di essere famiglia. Nel collo da cigno di Luisa il protagonista rivede l’immagine perduta di sua madre giovane, sulla quale già si affaccia lo spettro del tradimento, la felicità che si incrina come una brocca troppo piena.

L’età adulta è l’età della disillusione e in Casa che eri Giorgio Ghiotti lo racconta, componendo un romanzo diverso in cui, con una prosa che spesso sconfina nella poesia, si affaccia lo smarrimento del presente e di una generazione perduta. È un libro che narra la fine della giovinezza e il senso di angoscia che ti afferra quando ancora ti scopri impreparato alla vita. Impossibile non cogliere le affinità con un altro grande libro della nostra letteratura: L’ultima estate in città di Gianfranco Calligarich (1973) che entra in profonda risonanza con queste pagine ed è anche citato esplicitamente nell’evocata «via dei Glicini».

La disillusione era il controcanto delle pagine di Calligarich, ambientate in una Roma dorata quanto inospitale, ed è riflessa in Casa che eri sin dalla nostalgia espressa nel titolo. Anche Aldo, proprio come Leo Gazzarra, è un uomo disincantato e cinico, che riflette le contraddizioni di un’epoca ricca di promesse ma vuota di opportunità. Inquietudine, ricordi fluttuanti, memorie famigliari infestano la narrazione come spettri e ritorna la sempiterna domanda: «A chiederti per l’ultima volta: cosa intendi fare della tua vita?».

La verità è che non c’è davvero risposta, o perlomeno non c’è una risposta univoca. Ci sono la pioggia che cade e il fiume Tevere che continua a scorrere ingolfandosi, fluendo inarrestabile attraverso rabbie e dolori, gelosie e abbandoni, amori e promesse tradite, mentre noi ci poniamo sempre le stesse domande di ieri e cerchiamo di trovare un senso a qualcosa che senso non ha. Imparare ad abitare una casa vuota è, in fondo, già un modo di vivere.