Claudia Giovannini
pubblicato 6 anni fa in Letteratura

“Così è l’amicizia” nell’opera di Proust

La Ricerca (in)contra Nietzsche

“Così è l’amicizia” nell’opera di Proust

Quella di Marcel Proust (1871-1922) è una penna che, impeccabile, di peccato tuttavia si nutre. Se essa è stata in grado di elevare la più squisita falange dei sentimenti umani, ecco che in tale enciclopedia il più sacro degli affetti rimane a terra, irrito nel paradosso della solitudine: è il sentimento dell’amicizia.
Annoverato con le parole più cangianti della letteratura, l’amicizia è sempre stata un tema forte.

Essere fratello e sorella, due anime che si toccano senza confondersi, le due dita della mano

scriveva Victor Hugo in riferimento a questo tipo di batticuore. Riconosciamo nell’amico colui che ispira nobiltà d’animo, e non v’è dubbio che la scelta ricada su di lui se chiediamo fiducia o la più intima delle confidenze; diventa così quotidiana quella reciproca stima quando, complici l’un l’altro, c’è un continuo scambio di qualcosa.
Ne La parte di Guermantes, terzo volume di Alla ricerca del tempo perduto, Proust sembra però passare oltre certe scontatezze. Non è necessario che due individui posseggano il medesimo intelletto e modalità di pensiero affinché possa nascere un’amicizia; al contrario, la parte più autentica di ognuno viene repressa a favore di un io superficiale e mobile, il quale plasma le proprie condizioni e vantaggi a seconda della persona che ha davanti – non si può agire sulle qualità degli amici cercando di sceglierli o portarli al nostro stesso livello, è impossibile pretendere per sé un’amicizia del tutto adeguata. Georges De Lauris, ricordando lo scrittore, racconta come in effetti Proust non cercasse di stupire i suoi interlocutori, parlava piuttosto di quello che credeva interessasse loro, anche se non era di sua competenza; egli voleva solo contentarsi e contentare, e se c’erano persone che davvero lo colpivano, non si poteva prevedere chi fossero. Nondimeno, scrive Proust che

qualunque fosse la mia opinione sull’amicizia, non c’è beveraggio tanto funesto da non poter diventare, in certi momenti, prezioso e tonificante, dandoci la sferzata che ci era necessaria, il calore che non possiamo trovare in noi stessi.

L’amicizia era per lui una cosa talmente da poco da non capire affatto

come uomini di qualche ingegno, per esempio un Nietzsche, abbiano potuto commettere l’ingenuità di attribuirle un certo valore intellettuale e, conseguentemente, di rifiutarsi ad amicizie cui non fosse connessa la stima intellettuale.

Il romanziere sembrerebbe metter piede in un terreno di incontro-scontro quanto mai ambiguo e pretenzioso. Quel che è certo è che Proust venne in contatto, tra le altre, con alcune lettere del filosofo Friedrich Nietzsche (1844-1900) – pubblicate sul Journal des Débats nel 1909 – nelle quali questi inveiva contro l’ormai superato Richard Wagner. Il compositore veniva definito in quelle carte “il genio della menzogna”, poiché era stato capace di attrarre Nietzsche a sé, di fargli lodare stupidamente il suo pensiero, oltre che la sua musica. Umano troppo umano renderà definitiva la rottura tra i due, eppure certi saggi precedenti già testimoniavano come il filosofo di Röcken non trovasse più nessuna intesa con i giudizi e la mentalità dell’amico. Egli era insomma dell’idea che la socialità potesse dare i suoi frutti soltanto tra persone della medesima levatura, da qui la tendenza a tagliare fuori chiunque non rispettasse tale requisito. Non a caso, prima che l’isolamento e la follia prendessero il sopravvento, Nietzsche lamentava la perdita di vecchi amici, dacché sinceramente non ne comprendeva più la lingua; egli si sentiva alieno, diverso “perché non v’è perfetta amicizia, se non fra EGUALI. Fra EGUALI!”. In Proust così come in Nietzsche cade quel senso di sicurezza, celebrata invece da Balzac, che l’amicizia regala come conforto: ciò che ne rimane è la solitudine.
A tratti malinconico, in altri rassegnato, l’atteggiamento di Proust nei confronti di questo sentimento sembra collidere con la sua opera – un lungo, lunghissimo romanzo fittamente contornato di personaggi, con un Narratore incastrato in ogni genere di pettegolezzi e intese, di affiatamenti e tenerezze sempre nuove. In realtà, il Narratore della Ricerca sembra avere, fra tutti, un buon amico e fidato: è Robert de Saint-Loup. Persino in altri volumi del romanzo, è a lui che attribuisce un’intelligenza pur conforme alla sua, nonché una condotta tanto fraterna e bonaria da sfiorare la devozione. Non sempre i due saranno in linea con le reciproche idee, basti guardare alle opinioni e le relative motivazioni di ciascuno circa l’Affare Dreyfus. Nel mentre impera nella società quello snobismo tanto denunciato da Proust, giacché dai pregiudizi di classe si viene divorati, Saint-Loup pare essere uno dei pochi a voler dare ancora un valore alla nobiltà di cuore e all’ingegno – egli si prodigherà spesso per il Narratore, mosso non tanto da quella logica profittatrice e altezzosa, quanto dalla sincerità delle sue affezioni.

Diceva di Proust lo scrittore François Mauriac:

Parlerò di un peccato più modesto e direi quasi un po’ ridicolo e vergognoso: lo snobismo. Ebbene, la pittura che Proust ne ha fatto, mi pare che nel suo libro abbia una profondità che ci illumina sull’uomo – è su di sé, su se stesso che l’ha studiata. Proust è un uomo che deve aver sofferto in un modo spaventoso. Egli era arrivato a uno scetticismo e a un nichilismo totale, tanto per quello che riguarda l’amore, tanto per quello che riguarda l’amicizia.
Quest’uomo, così amabile e così delicato, non credeva nell’amicizia.

Bibliografia:
Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto, Mondadori, “I Meridiani” collezione (1983-1998).

Filmografia:
Alla ricerca di Marcel Proust, documentario di Attilio Bertolucci, Rai (1966).

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