Daniel Pennac, “L’occhio del lupo”
Cari bambini e cari genitori,
saranno forse quegli occhiali tondi, ma per me Daniel Pennac somiglia un po’ a un mago.
Beh, credetemi, è davvero un mago delle parole, e ha scritto per tutti, grandi e piccini; i primi non faranno fatica a ritrovare il suo stile brillante, pacato e incisivo quando leggeranno le opere che ha dedicato ai bambini; sarà come ascoltare un amico che racconta storie, le più svariate, curiose e profonde.
Daniel Pennacchioni nasce nel 1944 a Casablanca. Il padre è un ufficiale militare e l’infanzia dello scrittore è segnata da viaggi in giro per il mondo, tra Africa, Europa, Asia.
Pennac inizierà la sua carriera di scrittore nel 1973 proprio con la pubblicazione di un libello intitolato Le service militaire au service de qui?. È chiaro che la dissacrazione della figura dell’uomo militare e l’umorismo sulla virilità ostentata del soldato, hanno come bersaglio la figura paterna; proprio per non danneggiare la carriera del padre Daniel scelse di pubblicare la sua opera prima con lo pseudonimo di Pennac.
È bello guardare con attenzione al loro rapporto: fantasticando, sembra di ritrovarvi una chiara differenza di vedute, un’aspra critica delle scelte di vita, ma un profondo rispetto e un dolce senso di gratitudine, derivato dalla consapevolezza che l’amore per la lettura e di conseguenza l’essere scrittore del figlio sia nato proprio guardando il padre.
Dichiara infatti Pennac in un’intervista: «Ci deve essere nella vostra fisiologia di lettore o lettrice, una specie di felicità. Almeno per me è così che tutto è cominciato. Ricordo che mio padre leggeva fumando la pipa… C’era la sua poltrona, la lampada, la pipa, il libro, il paradiso».
Il nostro autore non perderà mai occasione di sottolineare quanto l’amore per la lettura possa nascere non da un’imposizione, ma da una scelta personale: cercherà di propugnare questa sua convinzione prima di tutto tra i banchi di scuola.
Nonostante un cursus studiorum per nulla promettente negli anni del liceo, Pennac si laurea in lettere a Nizza nel 1968 e, quasi contemporaneamente, inizia un’avventura da insegnante che si snoderà per ben ventotto anni.
Sarà sempre grato a un professore del liceo che riuscì a vedere oltre le sue difficoltà, accentuate dalla disortografia, e a valorizzare il suo talento nella scrittura, proponendogli di abbandonare i canonici temi per dedicarsi invece alla stesura di un romanzo a puntate da consegnare con cadenza settimanale.
Chiunque avrebbe dovuto avere Daniel Pennac come insegnante.
Salendo in cattedra ha portato con sé il bambino e il ragazzo che è stato, ha guardato i suoi alunni con uno sguardo che a ogni passo riusciva a trasmettere comprensione, appoggio e fiducia, incontrando anche i meno studiosi su un campo comune, memore delle difficoltà scolastiche che lo inchiodavano tra gli ultimi della classe.
È lui stesso a raccontarlo nel discorso che tenne in occasione del conferimento della laurea ad honorem che l’Università di Bologna gli conferì nel 2013 per il suo impegno nella pedagogia:
Questa laurea non è data a me, ma al bambino che sono stato, al pessimo allievo tra gli ultimi tre della classe, il somaro che non corrispondeva mai ai criteri del sapere che l’istituzione esigeva da lui. Quel bambino in mezzo ai sapienti è stato il mio primo maestro, colui che mi ha insegnato la cognizione del dolore, affinché diventando professore sapessi placarlo nei suoi simili.
L’insegnamento, a cui inizialmente Pennac si era dedicato non per passione ma perché gli lasciava tempo per scrivere, forma il suo pensiero; il rapporto con i suoi allievi lo arricchisce e lo aiuta a mettere a punto un metodo pedagogico che parta dall’organizzazione di quello che lo studente conosce e non da quello che dovrebbe conoscere.
Il suo Diario di scuola è un’opera preziosa in cui traspare l’amore per la scuola «baluardo troppo fragile contro pubblicità e demagogia» ma unico e ultimo riparo per proteggere i più giovani dal potere della televisione, dall’influenza dei demagoghi e dei pubblicitari che sostituiscono il bisogno di essere con il desiderio di avere.
La scrittura di Pennac è decisamente peculiare: attraversata da una vena fiabesca, innocente e ingenua; il suo candore è proprio l’arma che usa per sottolineare difetti e incongruenze del nostro mondo. La ritroviamo nei racconti per bambini a cui si dedicò all’inizio – L’occhio del lupo, Abbaiare stanca, Ernest e Celestine – ma anche nella saga della Famiglia Malaussene che gli regalò il successo, storia di una famiglia squinternata, metafora delle perversioni sociali derivate dal consumismo che inchioda il protagonista, Benjamin, al grottesco ruolo di capro espiatorio.
Numerosi sono poi gli scritti di Pennac: romanzi, saggi, fumetti, pièce teatrali, albi illustrati e racconti. Ogni opera, scritta da un uomo che è sia uno scrittore sia un maestro, è bella da leggere e ha molto da insegnare.
Pennac invita gli adulti a dedicare del tempo al raccontare storie ai più piccoli, e, d’accordo con Valery, afferma: «Sapete che la letteratura con la elle maiuscola vuol dire prima di tutto entrare nei vostri cuori attraverso i racconti che vi hanno fatto i vostri genitori ed i vostri nonni per addormentarvi la sera».
Perché non cominciare dalle sue opere dedicate all’infanzia?
di Daniel Pennac leggiamo: L’occhio del lupo
È una storia bellissima quella che scorre negli occhi di Africa e Lupo Azzurro, i protagonisti de L’occhio del lupo, breve romanzo scritto nel 1984, e, per ammissione dello stesso Pennac, il libro che preferiva tra i suoi.
Leggerla insieme ai più piccoli regalerà emozioni buone, piene di sincerità e voglia di conoscere storie lontane a cui di solito neppure pensiamo.
Se si dovesse esprimere con una sola parola di che cosa tratta questo breve e intenso racconto – quasi una lirica sull’incontro tra un ragazzo e un lupo – credo che quella parola sarebbe ‘empatia’.
Molte volte noi grandi sentiamo risuonare questa parola, ce ne riempiamo la bocca ma probabilmente non ne afferriamo appieno il significato.
L’occhio del lupo può aiutarci in questa impresa; insegnare ai nostri figli, ai nostri nipoti, ai nostri alunni il vero significato dell’empatia, considerarla una sorta di super potere che ciascuno dovrebbe tenere in tasca, è davvero un’importante e fondamentale sfida educativa.
Pennac dispiega le mille emozioni che provano i suoi protagonisti, le racconta, all’inizio considerandole singolarmente, fino a unirle portando alla luce punti in comune che sembravano non esistere.
Il racconto inizia con uno sguardo insistente.
Africa, un bambino, è davanti alla gabbia di uno zoo dove è rinchiuso un lupo d’Alaska che tiene aperto solo un occhio.
L’Africa e l’Alaska: anche attraverso la geografia l’autore vuole sottolineare quanto i due siano lontani.
Africa fissa il lupo che si muove nervosamente avanti e indietro, cerca un punto di contatto, prova a vincere la resistenza di quell’inquieto animale.
Ci riesce, perché chiude un occhio.
Ecco l’empatia. La dichiarazione: voglio sentire come senti tu, voglio vedere quello che vedi tu, voglio arrivare alla tua storia perché «un nome non significa nulla senza la sua storia».
Le difese di Lupo Azzurro cadono e ai due basta un solo occhio per leggere le rispettive vite.
Meraviglioso il racconto della vita del lupo, che, sempre in fuga dall’uomo – definito un «collezionista», «due zampe e un fucile» – cerca di proteggere la sua famiglia, di tenere a freno la curiosità della bellissima sorella, Paillette, a causa della quale verrà catturato; di prendersi cura dei fratelli più piccoli, i Rossini, e di fare propri gli insegnamenti della mamma, Fiamma Nera, che da sempre gli ripete: «il migliore degli uomini non vale nulla».
Il solco tra uomo e animale è tracciato, ed è così profondo che sembra destinato a restare incolmabile.
Lupo Azzurro finisce allo zoo, condivide la sua gabbia con Pernice e, alla morte di questa, rimasto solo, chiude un occhio perché nulla merita uno sguardo più completo.
Almeno fino a quando arriva Africa, il bambino che, giorno dopo giorno, continua a fissarlo e chiude un occhio, proprio come lui.
Nell’occhio rimasto aperto il lupo vede tutto quello che è successo al piccolo.
Una storia triste ma piena di speranza e possibilità, un’avventura che si snoda nel continente africano, passa per l’Africa gialla dei deserti, per quella grigia della savana e per quella verde delle foreste, fino ad approdare al nostro mondo con un carico di emozioni, prove, dispiaceri, amicizie, davvero pesante per un bambino.
Africa, ancora piccolissimo, viene salvato da un mercante che lo porta con sé sul dorso di Pignatta, un dromedario che diventa il suo più grande amico; cresce e incanta tutti con la sua capacità di raccontare storie: chiunque lo incontra brama di sedersi attorno al fuoco per ascoltarlo.
Il mercante però vende Africa a un pastore. Inizia il viaggio nella parte grigia del continente, il nuovo amico del ragazzo è un ghepardo con il quale percorre nuovi sentieri, racconta altre storie, affronta diverse avventure e pericoli.
Neppure il pastore tiene Africa con sé, lo allontana, deluso perché il ragazzo non ha saputo proteggere le sue preziose colombe.
È la volta dell’Africa verde, il ragazzo arriva a bordo di un camion – l’autista gli ha concesso un passaggio in cambio delle sue storie – che finisce in un fosso dopo un brutto incidente.
Africa viene soccorso da M’ma e P’ pa Bia, genitori di quattordici figli, che lo portano sulla loro palafitta in cima agli alberi, al riparo dai serpenti, lo curano e lo adottano con una semplicità davvero commovente. Anche in questa parte della storia il ragazzo stringe amicizia con gli animali, un pappagallo e un gorilla.
Ora ha una famiglia, ma è il momento di lasciare il continente africano, la terra è sempre più secca per via della deforestazione e P’pa Bia decide che è il momento di emigrare verso l’altro mondo, il nostro.
P’pa Bia, grazie a un cugino, viene assunto presso lo zoo municipale, si occupa degli alberi nella serra tropicale – gli stessi probabilmente che strappati al loro ambiente naturale Pennac descrive come moribondi tra le pareti di vetro – e qui Africa ritrova tutti i suoi vecchi amici: Pignatta, il ghepardo, il gorilla e perfino il mercante Toa, che ora vende gelati.
È attraverso questo scorrere delle vite proiettate dagli occhi che Africa e Lupo Azzurro si incontrano, il solco tra i due si riempie di tutto ciò che hanno in comune: la capacità di sopravvivere, la voglia di scoprire, la sofferenza, la disillusione, la fuga, la stanchezza e poi l’amicizia, l’empatia.
Il libro si chiude con un dolcissimo lieto fine: insieme, Africa e Lupo Azzurro decidono che «questo è uno spettacolo che merita di essere ammirato con tutt’e due gli occhi», perché condividere le loro storie è proprio quello che le rende degne di essere vissute e raccontate ancora e ancora.
A noi non resta che ascoltare.