De-realtà: l’Io pietrificato in un mondo capovolto
In Frammenti di un discorso amoroso (Einaudi, 1979, pp. 73-76) Roland Barthes definisce «de-realtà» la «sensazione di assenza, di riduzione di realtà, provata dal soggetto amoroso nei confronti del mondo». È quando l’individuo è intrappolato in un limbo esistenziale, da cui l’angoscia gli impedisce di fuggire: vede e non vede, agisce e non agisce, parla e non parla; quando è precipitato nel regno dell’antitesi e dell’ossimoro, dove tutto è simultaneamente l’affermazione e la negazione di tutto, e dove ogni cosa – anche lui stesso – sembra muoversi velocemente e capovolgersi e insieme restare ferma, immobile, pietrificata. È la dimensione del “non so”, della caduta della volontà, dell’oscillazione continua tra due poli opposti che impedisce di trovare un giusto mezzo, un posto fisso e stabile da cui poter discernere il mondo: l’Io è assente dalla realtà perché ormai se n’è estraniato a tal punto che le cose sembrano perdere i loro confini e tutto pare mescolarsi e combinarsi, in un’ineffabile pozzanghera che viene percepita come un oceano. Tutto questo è sentito come un atto di prepotenza da parte della realtà: «subisco la realtà come un sistema di potere» e non ho più parole per descriverla – tutto è il contrario di tutto, e questo «tutto» è indicibile e inesprimibile; eppure l’unica causa di quest’angoscia sono io stesso: ecco il dramma della volontà.
L’Io è come morto, ma «se, mediante un atto di padronanza di scrittura, riesco a dire questa morte, allora io comincio a rivivere […]; se esprimo [il de-reale] (se lo definisco, anche con una frase infelice o troppo letteraria), significa che io ne esco».
Siamo di nuovo sfociati nel paradossale: l’individuo ristabilisce un legame con ciò che è vero – la realtà – e recupera la sua volontà grazie ad un atto di finzione – la letteratura.
Comincerò con un esempio famosissimo. Catullo, carme 85:
Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris?
Nescio, sed fieri sentio et excrucior.Odio e amo. Mi chiederai come faccio.
Non lo so, ma lo sento succedere, e mi tormento.
Il dramma della volontà, cui accennavamo prima, sta tutto in quei «nescio» e «fieri sentio»: l’amore-odio del poeta non dipende da lui, egli non sa come sia possibile tutto ciò, ma lo sente accadere. Catullo è allo stesso tempo attore e spettatore del suo dramma amoroso; oscilla tra l’amore e l’odio e non ne capisce il perché: è imprigionato nel paradosso della de-realtà, frantumato (excrucior) in tutto il suo essere, e soffre di un dolore che riesce a esprimere unicamente con un ossimoro – e che di fatto, in questo modo, non esprime.
Lo studioso Guido Paduano ha abilmente individuato un pensiero analogo in una poesia dello spagnolo Pedro Salinas (La voce a te dovuta):
Non voglio che ti allontani,
dolore, ultima forma
di amare. Io mi sento vivere
quando tu mi fai male […]
In quella realtà
sommersa che nega se stessa
ed ostinatamente afferma
di non essere esistita mai,
d’essere stata nient’altro
che un mio pretesto per vivere.
Se tu non mi restassi,
dolore, irrefutabile,
io potrei anche crederlo;
ma mi rimani tu.
Tornando direttamente all’Odi et amo, il carme catulliano fu poi ripreso da Ovidio in un passo molto famoso degli Amores (III, 11 – qui cito i vv. 33-36, 39-40):
Luctantur pectusque leve in contraria tendunt
Hac amor hac odium, sed, puto, vincit amor.
Odero, si potero; si non, invitus amabo:
nec iuga taurus amat; quae tamen odit, habet […]
Sic ego nec sine te nec tecum vivere possum
Et videor voti nescius esse mei.Lottano e tendono in opposte direzioni il mio cuore insicuro
amore e odio, ma penso che vincerà l’amore.
Ti odierò, se potrò, altrimenti ti amerò mio malgrado:
neanche il toro ama il giogo, ma porta ciò che odia. […]
Così non posso vivere né senza di te né con te,
e mi sembra di essere inconsapevole dei miei desideri.
Ma se il concetto espresso da Ovidio è all’incirca il medesimo del catulliano odi et amo, pure non si può non intravedere che qui l’io poetico è già più distante e lucido: il carme di Catullo è un lampo di dolore, estremamente angosciante; i versi di Ovidio piuttosto una lente d’ingrandimento sulla condizione dell’innamorato – e non è un caso che la maggior parte dei critici, mentre concorda sulla veridicità della relazione fra Catullo e Lesbia, tenda invece a reputare la Corinna ovidiana soltanto un personaggio letterario, cioè inventato.
Tuttavia, sebbene attraverso la finzione letteraria, anche in Ovidio abbiamo la descrizione dell’ambivalenza del sentimento amoroso e dell’insensatezza di tale sentimento: anche qui non è il soggetto a decidere – dramma della volontà – ma le figure di Amore e Odio (addirittura personificati), che lottano per il suo cuore e lo tirano da una parte e dall’altra, nella quasi inconsapevolezza dell’innamorato.
Uno dei versi che abbiamo appena esaminato è citato dal Petrarca nella famosa lettera sull’ascesa al Monte Ventoso (Familiares, IV, 1). La scalata del monte è vista come un’allegoria dell’esistenza umana: Gherardo, libero dagli impacci mondani e sorretto dalla sua fede in Dio, distanzia di molto suo fratello Francesco, che invece non riesce ad abbandonare i piaceri terreni – tra tutti, l’amore per Laura – e a dedicarsi finalmente a una vita di fede e contemplazione. In questo passo il Petrarca esprime bene il suo dissidio interiore: «Ciò che ero solito amare, non amo più; mento: lo amo, ma meno; ecco, ho mentito di nuovo: lo amo, ma con più vergogna, con più tristezza; finalmente ho detto la verità. È proprio così: amo, ma ciò che amerei non amare, ciò che vorrei odiare; amo tuttavia, ma contro voglia, nella costrizione, nel pianto, nella sofferenza. In me faccio triste esperienza di quel verso di un famosissimo poeta: “Ti odierò, se posso; se no, t’amerò contro voglia”».
Ci sono tre sonetti del Canzoniere – 132, 133, e 134 – che riprendono questo tema, e «in cui, fra antitesi e ‘correlativi oggettivi’ stranianti, il poeta esibisce il proprio paradossale stato di alterità, stretto fra le maglie di un amore non investigabile (o decidibile) razionalmente» (Stroppa, 2011).
Il dramma della volontà per Petrarca si configura nell’impossibilità di resistere al suo amore per Laura, che rappresenta l’ostacolo principale alla sua purificazione spirituale: egli vorrebbe non amare, e dunque non peccare, eppure ama, non comprendendo perché questo sia per lui doloroso; ma egli vuole o non vuole?
S’amor non è, che dunque è quel ch’io sento?
Ma s’egli è amor, perdio, che cosa e quale?
Se bona, onde l’effetto aspro mortale?
Se ria, onde sí dolce ogni tormento?
S’a mia voglia ardo, onde ’l pianto e [‘l] lamento?
S’a mal mio grado, il lamentar che vale?
O viva morte, o dilettoso male,
come puoi tanto in me, s’io no ’l consento?
E s’io ’l consento, a gran torto mi doglio.
Fra sí contrari vènti in frale barca
mi trovo in alto mar senza governo,
sí lieve di saver, d’error sí carca
ch’i’ medesmo non so quel ch’io mi voglio,
et tremo a mezza state, ardendo il verno.
Lo stato paradossale dell’innamorato, che trema in estate e arde in inverno, ritorna anche nel sonetto 133, ma ci interessa di più il sonetto 134: qui il dramma della volontà è al parossismo; il poeta è pietrificato e immobilizzato dal suo amore, e non sa più cosa fare, e non capisce più nulla, e crede di stringere tutto ma si accorge di non possedere niente. Pioggia di ossimori e antitesi per tentare di esprimere l’indicibile:
Pace non trovo, e non ho da far guerra;
e temo, e spero; e ardo, e son un ghiaccio;
e volo sopra ‘l cielo, e giaccio in terra;
e nulla stringo, e tutto ‘l mondo abbraccio.
Tal m’ha in pregion, che non m’apre né serra,
né per suo mi riten né scioglie il laccio;
e non m’ancide Amore, e non mi sferra,
né mi vuol vivo, né mi trae d’impaccio.
Veggio senza occhi, e non ho lingua e grido;
e bramo di perir, e cheggio aita;
e ho in odio me stesso, e amo altrui.
Pascomi di dolor, piangendo rido;
egualmente mi spiace morte e vita:
in questo stato son, donna, per voi.
Questo sonetto è una descrizione perfetta della «de-realtà» quale la intende Barthes: il mondo che diventa insieme prigione e sconfinato spazio, in cui l’individuo angosciato non riesce più a trovare una sua dimensione, perché immobilizzato e agghiacciato, perché non sa più cosa fare e neppure cosa pensare. Così scrive il grande semiologo francese: «Il mondo è pieno senza di me, come nella Nausea; esso gioca alla vita dietro un vetro; il mondo è immerso in un acquario; io lo vedo vicinissimo e tuttavia separato, fatto di un’altra sostanza; cado continuamente fuori di me, senza vertigine, senza annebbiamento, nella precisione, come fossi drogato».
Per tornare brevemente a Petrarca, vediamo che questa frantumazione dell’Io, questo dissidio fra due poli opposti trova spazio anche nella ballata 55 (vv.13-17):
Amor, avegna mi sia tardi accorto,
vòl che tra duo contrari mi distempre;
e tende lacci in sí diverse tempre,
che quando ho più speranza che ‘l cor n’esca,
allor più nel bel viso mi rinvesca.
L’amore vuole che l’innamorato si strugga «tra duo contrari». Ecco un altro tema che abbiamo sottolineato fin dall’inizio: la schizofrenia del sentimento amoroso, che l’individuo non sa spiegarsi e che percepisce come una violenza imposta dall’esterno. Il «non so»: condizione universale dell’uomo senza più fedi e verità, dell’uomo angosciato e fuori di sé, dell’uomo che è troppo legato alla realtà ed è insieme fuori di essa; il «non so»: dramma insanabile anche per lo Jacopo Ortis foscoliano, stretto tra il furor di patria e l’amore. Vorrei concludere proprio con un pezzo dalle Ultime Lettere di Jacopo Ortis:
Io non so né perché venni al mondo; né come; né cosa sia il mondo; né cosa io stesso mi sia. E s’io corro ad investigarlo, mi ritorno confuso d’una ignoranza sempre più spaventosa. Non so cosa sia il mio corpo, i miei sensi, l’anima mia; e questa stessa parte di me che pensa ciò ch’io scrivo, e che medita sopra di tutto e sopra se stessa, non può conoscersi mai. Invano io tento di misurare con la mente questi immensi spazj dell’universo che mi circondano. Mi trovo come attaccato a un piccolo angolo di uno spazio incomprensibile, senza sapere perché sono collocato piuttosto qui che altrove; o perché questo breve tempo della mia esistenza sia assegnato piuttosto a questo momento dell’eternità che a tutti quelli che precedevano, e che seguiranno. Io non vedo da tutte le parti altro che infinità le quali mi assorbono come un atomo.