“Dialoghi di profughi” e “Poesie di Svendborg”: il Bertolt Brecht dell’esilio
scrivere significa lottare
È il 27 febbraio del 1933 e il Palazzo del Reichstag di Berlino brucia. Il nazionalsocialismo fa il suo trionfante ingresso in Germania e Comediavolosichiama inizia la sua ascesa al potere. Bertolt Brecht chiama così Hitler in uno dei suoi scritti più nascosti e più sarcastici. Sì, nascosto, perché di solito posto in secondo piano nella lista delle opere brechtiane; e poi, sarcastico, poiché si tratta di una beffarda lacerazione nella carne, di un tedesco annullato, di una identità sbrindellata: l’unica alternativa possibile è la fuga.
Brecht fugge infatti da Berlino il 28 febbraio 1933, con qualche amico e con la sua famiglia a carico. Il testo in questione si intitola Dialoghi di profughi, una conversazione che intrattengono Ziffel e Kalle, un intellettuale e un operaio metallurgico, due tedeschi, due esuli in cui Brecht si identificherà.
Accolta nei Coralli di Einaudi soltanto postuma (1962), tradotta da Margherita Consentino, l’opera è stata composta tra il 1940 e il 1941 in Finlandia, una delle tante mete di Brecht, costretto a indossare i panni del Landstreicher, ovvero del vagabondo.
Dopo la morte della madre nel 1920 Brecht infatti lascia Augusta, il suo paese di origine, e inizia a spostarsi. Nel 1924 si trasferirà a Berlino, dove morirà nel 1956. Nel frattempo, vivrà da esule in diversi paesi.
La Finlandia è stata la tappa successiva alla Danimarca (1933-39) e alla Svezia (1939-40) e precedente agli Stati Uniti (1941-47). In Danimarca, Brecht pubblicò la raccolta delle Poesie di Svendborg dalle quali emerge delineata la sua condizione di esiliato, di rifugiato e scrittore-politico in fuga. In particolare è nella quinta parte dell’opera, le Satire tedesche (traduzione di Franco Fortini), che scrive:
Sempre mi è apparso erroneo il nome che ci hanno dato: emigranti.
Questo significa: espatriati.
Ma noi non siamo espatriati volontariamente
altro paese scegliendo.
E nemmeno siamo espatriati
in un paese per restarvi, possibilmente per sempre.
Siamo fuggiti, invece. Espulsi noi siamo, banditi.
E non casa, ma esilio dev’essere il paese che ci ha accolti.
La sua, dunque, è una fuga indotta. Brecht decide di non far parte e di non vivere in quella barbarie.
Come d’altronde suggerisce lo stesso Ziffel, nei dialoghi IV e VII: «Sono contrario alla pretesa di mettere ordine in un porcile […] [e] non abbastanza preparato per poter continuare a vivere da uomo in mezzo a tutto quel sudiciume. La chiami pure debolezza, ma io non sono così umano da poter restare uomo alla vista di tanta disumanità».
Con ironica malinconia, in Dialoghi di profughi Brecht probabilmente riprende la forma del dialogo usata da Goethe nelle Conversazioni di emigrati tedeschi (1794), dove al posto di una nobile famiglia tedesca in fuga dalle armate napoleoniche si trovano due uomini comuni ai margini dell’ascesa nazista e uniti dall’inazione; e ai racconti di fantasmi di carattere leggero di Goethe si contrappone un profondo discorso brechtiano sulla politica, sulle analogie tra guerra e capitalismo, sulla necessità di essere virtuosi, sulla libertà.
Kalle e Ziffel sono due uomini diversi, ai quali però Brecht ha affibbiato parte della sua personalità: come si legge tra le righe telegrafiche ed eterogenee delle memorie di Ziffel, Brecht ha la sua stessa istruzione, è anch’egli «figlio di buona famiglia» e un intellettuale; ma fisicamente è Kalle quello più vicino a Brecht e quello che cita maggiormente le sue poesie.
Il poeta e drammaturgo si è dunque alienato da sé in una doppia proiezione, un insieme inevitabile dei vizi e delle virtù da cui Brecht stesso cerca di dissociarsi.
Nel paese ideale tanto agognato da questi due tedeschi, che si incontrano nel ristorante della stazione di Helsinki per poter discorrere dei più disparati argomenti, le virtù non servono a niente. In questo paese utopistico è possibile essere lascivi, disordinati. Nel primo dialogo, Ziffel sostiene per l’appunto che «è l’ordine che fa vincere la guerra […] ed è il disordine che ha già salvato migliaia di individui. In guerra spesso basta la più piccola deviazione da un ordine perché uno porti in salvo la pelle».
Brecht denuncia l’inumanità della guerra nazista e chiede agli uomini, tra le righe, di ribellarsi in qualche modo; di distaccarsi dal significato della parola “tedesco”, con cui Ziffel si dichiara adirato (dialogo VIII): «Io ce l’ho con la parola “tedesco”. Essere tedesco significa fare le cose a fondo, che si tratti di lucidare i pavimenti o di sterminare gli Ebrei. Voglio augurarmi che il tedesco […] senta ora la necessità di cambiar nome. Altrimenti come fa a cominciare una nuova vita se tutti lo conoscono?». Nonostante sia doloroso, Brecht chiede dunque di non dimenticarsi di pensare. Senza uomini pensanti la guerra incalza. Con uomini ordinati c’è carenza di pensiero.
Eppure, il pensiero è la caratteristica peculiare dell’uomo. Questo concetto è palese nel Breviario tedesco, parte prima delle Poesie di Svendborg, dove si legge:
Generale, il tuo carro armato è una macchina potente
spiana un bosco e sfracella cento uomini.
Ma ha un difetto:
ha bisogno di un carrista.
Generale, il tuo bombardiere è potente.
Vola più rapido d’una tempesta e porta più di un elefante.
Ma ha un difetto:
ha bisogno di un meccanico.
Generale, l’uomo fa di tutto.
Può volare e può uccidere.
Ma ha un difetto:
può pensare.
Tuttavia, Brecht non contempla mezze misure: la bontà del capitalismo appare come immanente alle atrocità della guerra nazista. Infatti, capitalismo e democrazia sembrano posizionarsi agli antipodi. Il benessere e la libertà propugnati dagli Alleati, ad esempio, sembrano solo trasmettere l’interesse economico dei potenti, alimentato dallo sfruttamento sul lavoro dei dipendenti. Il pratico Kalle, con palese ironia, la mette così (dialogo IX): «Prenda gli americani; un gran popolo. Prima si son dovuti difendere dalla usurpazione degli indiani e adesso hanno sul collo i milionari.
Sono continuamente assaliti dai re dei generi alimentari, assediati dai trust del petrolio, spremuti dai magnati delle ferrovie. Il nemico è astuto e crudele, e trascina donne e bambini nelle profondità delle miniere di carbone o li tiene prigionieri nelle fabbriche di automobili. […] Possono venir licenziati da un momento all’altro, e persino quando sono stati licenziati combattono come animali selvaggi per la loro libertà […] e i milionari ne sono felicissimi». Il tutto si esprime amaramente con l’inverso della frase: «Il lavoro rende liberi» (da «Arbeit macht frei», scritta alle porte del campo di concentramento di Auschwitz).
Letta in chiave umoristica nel dialogo XI, Ziffel cita la dialettica di Hegel. Anche secondo il filosofo, che non immaginava l’ordine senza il disordine, lo Stato sorge laddove vi sono disarmonie tra le classi.
Brecht non solo ripudia la guerra in tutte le sue forme, dato che cita anche il fascismo di Coso (riferendosi ironicamente a Mussolini), ma anche il capitalismo, dato che ne fa parte. Si allontana dall’esasperante necessità di essere virtuosi: «Glielo dico chiaro e tondo: sono stufo di essere virtuoso perché niente funziona a dovere; di essere disposto a tutte le rinunce perché regna una penuria non necessaria; diligente come un’ape perché manca l’organizzazione; coraggioso perché il mio regime mi coinvolge in guerre», sosterrà Ziffel nel dialogo XVII.
E nonostante sembri che la sua sia una omissione dell’azione data dalla sua condizione di esiliato costretto a fuggire, in realtà abbraccia la lotta proprio con il suo lavoro di scrittore.
La miglior scuola di dialettica rimane paradossalmente quella dell’emigrazione, dei fuoriusciti, poiché «Essi sono tali appunto in seguito a certi cambiamenti, e quindi non studiano altro che i cambiamenti» (dialogo XI).
Il lavoro del poeta si realizza quindi in un’etica contrapposta all’immobilismo che l’esilio sembra aver suggerito finora e ciò che deve fare l’intellettuale è identificare la sua scrittura quotidiana con la lotta politica:
Tag um Tag
arbeitest du an der Befreiung
sitzend in der Kammer schreibst du.
E dunque:
Un giorno dopo l’altro
tu lavori alla liberazione,
tu nella stanza seduto scrivi.
di Federica Nardiello