Diceria dell’untore
Desueta e preziosa, colta e letteraria, lirica e tragicomica, metaforica e decadente risuona nelle pagine di Gesualdo Bufalino la diceria sulla “peste”, che s’apprende come in un contagio per agguato teso da uno scrittore-untore, in un turbinio di voluttà stilistiche, alle stolide certezze di un ipocrita lettore, le stesse del Bufalino-narratore che fa il suo ingresso nel mondo del sanatorio «quando ogni fibra è persuasa ancora d’essere immortale e si rifiuta di disimparare».
Un viaggio iniziatico il suo, nella sospensione straniante della malattia, tra dannazione e attesa del riscatto, in cui la parola orfica attraversa la finzione teatrale della vita e rivela l’unica, scarna, disturbante verità: «immaginaria ogni cosa tranne la nostra morte». L’autore affronta i temi della malattia, della caducità della vita umana, dell’amicizia e dell’amore con una eloquenza traboccante di tensione umanistica e ansia demistificatoria; con un verbum resistenziale il cui «registro alto, lo scialo degli aggettivi l’oltranza dei colori» come ebbe a dire lo stesso Bufalino, costituiscono «il modo che ci resta per contrastare l’ossificazione del mondo in oggetti senza qualità e per restituire ai nostri occhi ormai miopi il sangue forte delle presenze e dei sentimenti». Ed è in questi tempi in cui un’umanità empia e vigliacca rifugge dalla cruda realtà della pandemia, imbestiandosi in un labirinto di narrazioni babeliche, che bisognerebbe tornare a questa “odorata” letteratura, solenne bestemmia a un cielo sordo e compassionevole balsamo che rieduca al senso del limite, alla consapevolezza di una provvisorietà che solo il calore umano di mani strette in “social catena” possono redimere.
Il romanzo è la trasposizione letteraria e retrospettiva dell’io narrante-Bufalino dei mesi trascorsi nell’estate del 1946 nel sanatorio palermitano della Conca d’Oro, la Rocca, dopo aver contratto la tubercolosi combattendo durante la Seconda guerra mondiale; esperienza che recupera dall’ «angolo della memoria» per restituirla alla luce letteraria e allegorica di una iniziazione alla Vita Nuova, di una «vacanza del cuore che voleva educarsi a morire».
In questo itinerarium mentis in mortem lo accompagnano altri giovani martiri, con il quali stringe un solidale rapporto di amicizia, prematuramente esclusi dalle lusinghe delle “questioni private” del Secondo dopoguerra e immolati sull’altare della causa bellica: «tutti già soldati per mestiere o per forza, ora egualmente colpiti e con pronostico uguale custoditi intorno da un reticolato», loro «e nessun altro in Europa ormai». Esclusi con sentenza definitiva dalla rissa lieta per il mondo che rinasceva. Ciò che li accomuna è l’esuberanza loquace, il culto vanitoso e sofistico per i discorsi eruditi di cui si fasciano «come bende di vanità» per curare le ferite inferte «dall’aggressione dell’idea della fine».
La trama di per sé esile si affastella e dirama in una ragna illusionistica di Parche, baroccheggiante di policromie lessicali; una laica sindone tessuta a pietosa testimonianza di irredente passioni; modulando lo stile del loro costume, tra «diademi» e «corone di spine», essi passano sul proscenio della vita come attori di un beffardo canovaccio anonimo.
L’io narrante, unico sopravvissuto a quella stagione di perversa mietitura, ingaggia sin dal suo ingresso alla Rocca una morbosa colluttazione con la morte; lo affascina e repelle il suo richiamo macabro che lentamente si rivela dapprima nelle forme di una catabasi onirica tra uomini «purgatorialmente seduti» dove intravede «la rapida nuca di lei, Euridice». Poi il sogno si concretizza entro le forme di una Euridice-Marta, una giovane donna la cui vita è stata definitivamente compromessa nel corpo e nell’anima dallo stigma sia della storia che della malattia: di origini ebraiche, il suo cognome è Levi, si è macchiata di delazione e commistione con il nemico, i suoi capelli corti ne sono una testimonianza; ora su di lei incombe un presagio ed un destino, una formula d’accesso all’oltretomba tutta racchiusa entro i confini di una corrispondenza paranomastica: Marta-morte.
Nella prima parte la figura di Marta campeggia in absentia: «E Marta, Marta ha contato più di tutti, ne parlerò più avanti quando non potrò più farne a meno»; appare poi nel suo metamorfico piumaggio di blandizie femminee e finzioni letterarie, dominante e scenica a «danzare» con lui «una stessa tresca d’amore e di morte». È l’Euridice «referendaria di un al di là» che conduce il suo Orfeo sul limitar d Dite e lo restituisce al mondo dei vivi, tra gli uomini che non si voltano” (E. Montale, Forse un mattino andando in un’aria di vetro) col suo fardello d’abisso. È la Beatrice serafica interprete del contrappasso insito nella lussureggiante selva dei significanti, lei stessa «copertina di eleganze» e «sepolcro di carne». È l’Angelica epica e romanzesca, fatale seduttrice di uomini che, al centro di una contesa d’amore tra il medico della Rocca, il Gran Magro, e l’io-narrante, sceglie chi dei due dovrà accompagnarla nel suo definitivo tragitto: «Volevo andarmene dal mondo col ricordo di una carezza giovane dopo tante carezze di vecchio». È la Medusa «puttana, spia, aguzzina» che prende congedo da una Orestea di coturni ed Erinni e si ricompone sul letto di morte, dopo una «selvaggia macelleria», in un Areopago di Eumenidi rappacificate.
A giocare un ruolo fondamentale, quello di attore, sceneggiatore e regista, nella storia d’amore tra i due è il Gran Magro uomo di lettere «in cui apoteosi e rovina era sempre dannata a travestirsi in parole di libri». È il mago Atlante, orditore di illusionismi teatrali vani e perituri con i quali intrattiene, ravviva e rilancia una trama altrimenti destinata e cicliche e noiose repliche. Infatuato di Marta, con la quale si lascia intendere che abbia avuto una relazione, introduce nello scacchiere del gioco erotico, a fastidire le bizze voluttuose e comiche di vecchio libidinoso e a raccendere per l’ultima volta di fiamme la fascinosa ragazza, l’io-narrante destinato a trascenderli.
Questi organizza uno spettacolo teatrale in cui Marta indossa prima i panni tragici di Giulietta e poi, a rievocare un passato da ballerina, si congeda dal pubblico con una danza che mima, tra «intenzioni di volo» e ineludibile arrendevolezza alla gravità dello schianto il breve decorso della sua ultima stagione. Il protagonista sarà subito colto da una «terzana d’amore» che si consumerà tra concessioni e dinieghi di Marta sino all’ultimo orgasmico respiro. Seguirà un «repulisti, una svendita», moriranno tutti i suoi amici; morirà lo stesso Gran Magro.
L’io-narrante volterà definitivamente le spalle alla Rocca e tornerà nel mondo dei vivi con la consapevolezza che la vita è finzione, allegorica e multiforme toppa ad un ineluttabile destino di morte che affratella e riscatta in una condanna comune. Ciò che lo ha salvato, infatti, è stato il sacrificio d’amore di Marta, la sua alma eredità.
Si chiude così «una storia da palcoscenico»; restituito alla vita da un contagio d’amicizia e d’amore:
– Sai come si dice nel mio dialetto dare il contagio? Ammiscari, si dice. Cioè mescolare, mescolarsi con uno. Significa che è un travaso di sé nell’altro, altrettanto mistico, forse, di quello di due altre assai diverse solennità: voglio dire la comunione col sacro nell’ostia; e la confusione, sul letto, di due corpi amici. – Così dicendo la baciai davanti a tutti, cercai di volgere in riso e in invito i capricci di rimorso che le turbavano il pensiero: dopotutto eravamo lì insieme per dare effetto ad una cosa d’amore.
di Annalisa Barletta