Distopicamente queer: “Loro” di Kay Dick
Queste pagine raccontano di com’è stata dichiarata guerra all’arte, alla cultura e al pensiero individuale, a quelle forze vive che sanno creare, comunicare ed emozionare. È come se le Muse venissero di colpo arrestate e rinchiuse in un carcere di massima sicurezza. Siamo in Inghilterra, in un tempo non precisato e in un luogo che dalle descrizioni ricorda il Sussex, dove un’umanità pennellata con rapidi tratti appare sospesa e, al contempo, incalzata dal dubbio e dal timore di quando Loro – così vengono definiti perché nessuno ci dice chi sono e forse neanche si sa – arriveranno senza risparmiare niente e nessuno.
Una volta selezionato un bersaglio, questi censori possono essere meticolosi e implacabili. Le loro vittime sono scrittori, scultori, pittori, musicisti, tessitori, ossia persone che creano qualcosa dal nulla per poi veder rigettare in quel nulla ciò che hanno prodotto. Capita di incontrare Loro per strada, di ritrovarli in casa mentre rimuovono i libri dagli scaffali o lasciano avvertimenti all’ingresso; sono abili osservatori ma non amano essere osservati, sanno essere violenti ma agiscono come automi. E sono oramai parte del paesaggio:
Una volta in cima osservai il mare, una mappa di tranquillità. Dagli scogli sulla riva, sentieri di luce dorata si allungavano fino all’orizzonte. Da bambini credevamo possibile correre su queste strade illusorie. Poi li vidi, in cima alla collina vicina. Erano incolonnati, e ognuno aveva un’asta esattamente alla sua altezza. Con determinata precisione ruppero la formazione, si voltarono e cominciarono a scendere, eseguendo uno schema di movimenti a zigzag, incrociando più e più volte i reciproci passi.
La loro forza non dipende dal far parte di un complesso sistema totalitario, come i pompieri che bruciano i libri in Fahrenheit 451 di Ray Bradbury o l’occhiuta sorveglianza in 1984 di George Orwell, ma dal loro numero, che aumenta sempre più anche grazie a solerti fiancheggiatori e volontari. Ed è una forza che distrugge tutto e ricostruisce secondo i propri dogmi, costringendo la popolazione a vivere in nuove case, una accanto all’altra, con finestre chiuse e giardini ben curati, dove l’unica luce viene dai televisori sempre accessi, sintonizzati su un canale di notizie accuratamente scelte da Loro.
In queste unità abitative di omologazione, intimamente concentrazionarie, viene instillata la paura del mondo esterno ma anche la certezza che, fra quelle mura anonime, nulla può ledere il singolo, perché dopo la perdita di identità Loro garantiscono un rapido acclimatamento.
Qualcuno reagisce? Certo, c’è sempre qualcuno che reagisce quando vede minacciata la propria libertà. Si mette in mezzo a mani rapaci che depredano libri, spartiti, quadri, sculture ma viene immediatamente punito, in un singolare contrappasso, con i propri ferri del mestiere. L’unica cosa che resta da fare è non lasciar trasparire emozioni, cercare di non rimanere da soli perché, più che dai gruppi, per Loro la minaccia è rappresentata dal singolo, fatto che lascia presupporre la presenza di qualche infiltrato che, proprio perché parte del gruppo, può sedurre coscienze o riferire infrazioni. La passività degli abitanti determina così una combustione tutta interiore che deve trovare sfogo nella non acquiescenza, nel programmare sempre piani per il futuro, nel creare solo per sé stessi perché qualsiasi cenno di resa equivale a fare il loro gioco, perché Loro vogliono l’inazione.
Per nove giorni ognuno di noi lavorò a modo suo, e ci stimolammo a vicenda con rinnovata energia. La pressione donava potenza e velocità alla nostra creazione. La barca fu restituita e legata all’argine. Tra una sessione di lavoro e l’altra giocavamo a scacchi, curavamo il giardino, leggevamo, ascoltavamo musica e nuotavamo nei canali.
A parlare sono un gruppo di artisti che si alternano nei vari capitoli, che mantengono vivo il valore dell’arte e della cultura, ma anche di una straordinaria forma di amicizia con piccoli atti di sfida e di bellezza. A scrivere è l’autrice Kay Dick, figura cardine della scena letteraria londinese tra gli anni Quaranta e Settanta insieme alla propria compagna, prima donna a dirigere una casa editrice, che pubblica questo romanzo nel 1977. Nel campo sovraffollato della distopia Loro sembra ancora fresco, innovativo, sovversivo, specifico senza essere prevedibile e silenziosamente brutale come doveva essere nel momento in cui fu dato alle stampe, con il corredo di una struttura onirica e una narrazione frammentata che restituisce con efficacia la paranoia e la paura di chi è vittima di Loro. In Italia ora è possibile leggerlo nell’edizione di minimum fax, tradotto da Assunta Martinese, che restituisce bene le asperità di una prosa rapida e allusiva, con una partecipe prefazione di Carmen Maria Machado.
Loro è un testo che si può interpretare in tanti modi, a ben guardare interconnessi. In chiave queer, per esempio, se pensiamo che gli artisti del libro hanno una sensibilità piuttosto spiccata. Il loro status di singoli devoti fan da contraltare a una condizione collettiva di chiara impronta conformista e misogina. Ma si può anche interpretare, con una lettura coeva alla pubblicazione del testo, come il racconto di un fascismo confuso ma onnipresente, che rende difficile pensare, figuriamoci capire, un’ideologia profana e profanatrice che si è impossessata di gran parte del paese. Il pensiero corre a quel National Front che ebbe largo seguito nella Gran Bretagna degli anni Settanta, con le sue istanze populiste e esplicitamente razziste e con la richiesta di reintroduzione del reato di omosessualità.
Ci si potrebbe spingere ancora più avanti in là, indagando il rapporto di questi intellettuali che vivono, ieri come oggi, in un limbo di sospensione, con un’altra domanda, forse più urgente: esistono ancora gli intellettuali in un mondo che chiaramente può fare a meno di loro? Quella coscienza critica che «ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero», per dirla alla Pasolini? Kay Dick, che sente questa responsabilità, sembra prefigurare una risposta, tra le nebbie di una distopia che ci porta in un mondo solo apparentemente lontano:
C’era un velo di brina sulle foglie delle mie rose. Il mare frantumava alte onde bianche sulla spiaggia. C’era l’alta marea. Mi voltai verso il cottage, e lentamente guardai a ogni aspetto della mia vita con nuovi occhi. La tensione si allentò. C’erano delle possibilità. ‘’Ciao amore’’, dissi, salutando il nuovo giorno.
di Claudio Musso