Dragan Velikić, “Bonavia”
La vita o è vita, o è la copia di qualcosa che ti fa perdere. La copia di una non esistenza (p. 52)
È questo, ammesso che si riesca a trovare il bandolo della matassa, il perno attorno a cui si articola Bonavia, il romanzo di Dragan Velikić edito da Keller quest’anno e tradotto in italiano da Estera Miocic.
Sembra, ad una lettura superficiale, un’opera confusa, vorticosa, quasi una vertigine, come se una videocamera seguisse in presa diretta ed in primo piano, molto da vicino, l’esistenza dei protagonisti: Marko, Miljan e Kristina e Marija. In realtà non appena si riesce a scostare il ritmo incalzante ed il dinamismo della narrazione ci si immerge nel non detto, nel non esistente del tutto, nel silenzio; come se i personaggi si muovessero sempre in direzione di una delle infinite possibilità che la loro esistenza offre, pienamente consapevoli che, di necessità, ne stanno escludendo.
Si ha, talvolta, l’impressione di leggere alcune pagine di Kierkegaard e di trovarsi avviluppati insieme ai personaggi tra i lacci di un’esistenza dalla cui sommità si osserva ciò che si è, consapevolmente, scelto di escludere.
Tuttavia la vertigine persiste e sembra che la struttura portante del romanzo sia costruita su dicotomie non nette, per così dire, impure: stasi-movimento, scelta-rassegnazione, presenza-assenza, non sembrano garantire confini stabili, punti di riferimento o, almeno, un altrove; neppure se una “grande acqua” – letteralmente un oceano – riesce a frapporsi tra la città natale e quella a cui si è diretta la propria fuga.
Kristina tra tutti i personaggi sembra rappresentare in modo più evidente la coesistenza dialettica di presenza ed assenza, dal momento che, ancora molto giovane, decide di abbandonare per sempre la propria città natale, Belgrado, al fine di ottenere una libertà duratura. Tuttavia nonostante il trasferimento negli Stati Uniti, dove lavora come ricercatrice, che la proietta lontano dalle storture e dall’immobilismo della propria città natale vessata da guerra e corruzione, non è mai in grado di sbarazzarsene completamente: è assente da quel luogo, ma, allo stesso tempo, presente in un non-luogo in cui la memoria e il caso hanno deciso di trascinarla in vario modo. Dunque il viaggio, che appare come una fuga, costituisce in realtà il cemento che rinsalda il legame con l’altrove che si cerca di dimenticare.
Lo stesso accade agli altri tre protagonisti che scelgono come meta del viaggio – o della fuga – Vienna, anche se per motivi diversi. Mentre Marko vi anela sulla scorta di un’idealizzazione infantile, di quando, cioè, si recava in visita al padre Miljan durante le vacanze estive, quest’ultimo la considera il luogo adatto per ricominciare a vivere il proprio sogno dopo la breve parentesi di un pomeriggio d’amore che gli consegna un figlio che considera poco più che una copia in miniatura di sé:
[Miljan ndr] All’inizio faceva fatica a provare qualcosa per Marko. Quello era solo un nome. Un sentimento di possesso. Un accompagnatore fisso, ovunque si trovasse (p. 194).
Il viaggio alla ricerca della propria identità costituisce in definitiva il modo d’essere dei personaggi e si configura come ricerca di una collocazione nel mondo che sveli l’ipocrisia della forma per restituire il senso vero dell’esistenza o, quantomeno, per giustificare la sofferenza della solitudine. Marko, sotto questo aspetto, è un viaggiatore eccellente: scrittore “fallito” di guide turistiche che va incessantemente in cerca di «una via di fuga quando era impossibile restare dentro se stesso; murato nella propria solitudine» (p. 172).
Marija, che esiste con lui da circa sette anni, risulta invece una viaggiatrice imperfetta: non necessita della fuga, poiché riesce attivamente ad imporsi sulla configurazione di ogni luogo, mentre Marko osserva in disparte e registra ciascun evento o dettaglio insignificante e lo registra meticolosamente nel taccuino in cui custodisce gelosamente l’identità che ha attribuito a sé stesso.
Dunque un meraviglioso romanzo d’avventura e di ricerca in cui si intrecciano i temi fondamentali e le contraddizioni della contemporaneità, che restituisce la complessità stabilire il confine tra presenza e assenza in un momento storico in cui le conseguenze di ogni azione si diluiscono nel tempo ma, paradossalmente, la fuga appare quasi una colpa che si trasmette di padre in figlio e come nelle tragedie eschilee è foriera di incomprensioni e spaesamento.
Uno spaesamento che ricorda certi versi di Montale:
talora ci si aspetta/di scoprire uno sbaglio di Natura / il punto morto del mondo / l’anello che non tiene / il filo da disbrogliare che finalmente ci metta / nel mezzo di una verità” (E. Montale, I limoni, 1925)
È questo che Bonavia significa: la piena comprensione di una verità storica e fragile sulla propria precaria esistenza intessuta di inquieti sensi, solitudine e rapporti interpersonali.