Susanna Ralaima
pubblicato 6 anni fa in Letteratura \ Recensioni

Due parole postate su internet su un romanzo che va contro internet

(o anche: recensione di Io odio Internet)

Due parole postate su internet su un romanzo che va contro internet

Ancora una volta abbiamo avuto la possibilità di leggere in anteprima un libro pubblicato dalla Fazi editore (che peraltro ha lo sconto del 25% su tutto il catalogo fino al 5 ottobre, quindi finita questa recensione correte in libreria).

Stavolta si parla di un brutto romanzo. E non lo dico io, ma Jarett Kobek. Chi è? Un giovane scrittore di origini turche con una propensione spiccata all’affrontare temi scomodi (ha scritto un’autobiografia fittizia di Mohammed Atta, attentatore delle Torri Gemelle).
Ed è anche l’autore del brutto romanzo, Io odio Internet.
Il libro è stato scritto sul finire del 2014, quando non era del tutto aperto il dibattito pubblico sul lato più oscuro di internet e Umberto Eco non aveva ancora detto che la rete dava diritto di parola agli imbecilli. Se in America ha dovuto inizialmente autopubblicarsi, qui in Italia arriva proprio oggi (4 ottobre) nella collana della Fazi Le meraviglie, famosa per il taglio umoristico e pungente.

Quante volte qualcuno ha detto – molto spesso senza cognizione di causa – che quell’autore lì era il nuovo David Foster Wallace o che quel racconto poteva essere il nuovo Lyndon? Il Times ha definito questo libro l’Infinite Jest contemporaneo, e stavolta non si è troppo lontani dalla verità: solo che invece di essere nell’Anno del Pannolone per Adulti Depend, siamo nell’anno di… Twitter.

È nel clima ostile e apparentemente democratico della rete infatti che si sviluppa la storia narrata; protagonista è Adeline, una quarantenne di Pasadena, California. Negli anni Novanta, quando non è ancora cool leggere fumetti di supereroi o di fantascienza e si viene considerati anche un po’ sfigati se si porta la maglietta con Spiderman (si veda anche: quando la Marvel non è ancora così popolare e non sforna un film l’anno da incassi milionari) Adeline crea insieme al suo amico Jeremy Winterbloss il personaggio di Trill, un gatto antropomorfo in un mondo medievaleggiante. Questo le garantisce la giusta fama, quella che ti permette di avere un ottimo tenore di vita senza dover combattere quotidianamente con fan e paparazzi per le strade di San Francisco. Per fare un favore a un amico docente, Adeline tiene perfino una lezione a una classe di giovani studenti del California College of the Arts, divagando tra politica, cantanti pop, scrittrici e copyright; lezione che a sua insaputa viene registrata.
E che a distanza di tempo viene postata sui social.
Questo scatena su Twitter una serie di reazioni dei vari fan di Beyoncé e Rihanna, attacchi da uomini dalla dubbia morale e dalla scarsissima conoscenza della grammatica, da gruppi femministi o da strambi fanatici, polemiche che si ingigantiscono fino a diventare trend topic (per tradurre letteralmente: argomento di tendenza, ovvero il tema di cui si parla di più in un determinato momento sul social dell’uccellino blu, calcolato secondo un preciso algoritmo).
Adeline si ritrova a dover navigare tra un mare d’odio e insulti, mentre la sua fama cresce a dismisura e le sue relazioni – in particolare con il figlio adolescente Emil – procedono in modo tortuoso. Attorno alla sua storia, si intrecciano le vite dell’amico e scrittore turco J. Karacehennem, dello scrittore di fantascienza Bay, della madre alcolizzata Suzanne, del partner più giovane Erik Willems, di Christine, che prima si chiamava Christian.

La storia, all’apparenza semplice, serve all’autore per affrontare con ironia una serie di tematiche importanti, attuali e molto spinose, grazie anche a pagine e pagine di mansplaining su argomenti vari, dai cosplay ai Google bus, da Doctor Who alla gentrificazione.
Centrale sin da subito è la discriminazione razziale e il white skin privilege: l’autore nota come tutto il mondo occidentale sia spinto da sempre a considerare la pelle bianca priva di colore e invisibile, invisibile come tutte le ingiustizie compiute nel corso della storia in nome di questa superiorità.
I soldi sono l’unità di misura del valore, e chi è bianco ha maggiori possibilità di raggiungere la ricchezza – nel corso del testo vengono citati CEO delle famose aziende della Silicon Valley, grandi produttori, scrittori, presidenti, registi, rigorosamente senza molta eumelanina nella pelle.

L’importante è essere bianchi e ricchi, quindi. Ma in realtà esiste un’altra condizione fondamentale, perché il personaggio principale di questa storia – che in realtà poi è corale e coinvolge tutti attraverso una narrazione non lineare – è bianco e di famiglia ricca e ha un lavoro redditizio, ma è una donna, e quindi tutto il prestigio sociale viene meno: in questo mondo bisogna essere bianchi, ricchi e uomini.
Kobek punta il dito con sarcasmo sulle ipocrisie della società e le sue ingiustizie legate a una visione patriarcale; lo fa con un moralismo simpatico, capace di strappare anche un sorriso, che si trasforma però subito in amarezza quando ci si rende conto che purtroppo questa è la dura realtà: c’è un razzismo istituzionalizzato e un etnocentrismo radicalizzato ancora oggi, una continua svalutazione della figura femminile, un endemico odio verso l’altro rappresentato dall’utente sul web, un odio dovuto all’invidia, all’ottusità, alla cattiveria gratuita o semplicemente alla superficialità, che spinge uno sconosciuto su internet a scrivere ad Adeline “Ciao troia, spero che tu venga violentata da una banda di immigrati clandestini sifilitici”.

In una recente intervista a Riccardo Staglianò, Kobek ha riconosciuto come le cose siano peggiorate negli ultimi anni, puntando il dito anche contro il Communications decency act, che libera le piattaforme online da ogni tipo di responsabilità sui contenuti postati. Senza alcun freno inibitore da parte dei forum e dei social stessi, molti utenti perdono la consapevolezza del peso delle loro asserzioni online, ogni cosa è concessa perché scritta solamente sulla rete: si pensi nel nostro paese alle varie minacce di morte o di stupro, agli insulti e agli attacchi personali rivolti al bersaglio di turno, Presidente della Repubblica, attrice, medico vaccinista o donna della politica che sia.
Questa mancanza di controllo, che verrebbe forse avvertita come censura dall’utente medio già pronto a esprimere il suo dissenso battendo con rabbia sulla tastiera, ha portato anche al proliferare delle fake news; i vari Facebook e Twitter, scrive Kobek nel romanzo, non hanno alcuna intenzione di controllare la veridicità dei contenuti: l’importante è che portino moltissimi click e quindi visibilità e guadagni. Anche in questo caso si pensi senza problemi alle bufale che vengono quotidianamente condivise e commentate dagli italiani.

“Internet era un ammasso strabordante di ideologie, dette e non dette, che riflettevano i valori sociali dei suoi numerosi creatori. Alcuni di questi credevano nella libertà di espressione. Alcuni di questi avevano paura dei russi. Alcuni di questi non credevano a nient’altro che ai soldi. Il sistema era stato progettato con il solo scopo di massimizzare la quantità di cazzate che la gente digitava sui propri computer e telefoni. Maggiore era l’interconnettività, maggiori erano i profitti. Era il feudalesimo a servizio dei marchi e si fondava sull’indurre gli esseri umani a indulgere ai loro istinti peggiori.”

Su questo romanzo brutto si potrebbero dire molte altre cose, ma per non farvi spendere troppo tempo su internet, con un computer, un tablet o uno smartphone – strumenti prodotti da schiavi in Cina che fanno arricchire le multinazionali dai CEO bianchi – per leggere queste considerazioni, sceglierò un solo aggettivo per riassumerlo, riprendendolo dalla copertina stessa: questo è un romanzo utile.

(Ora staccate internet e andate in libreria a comprarlo).

 

 

 

L’immagine in evidenza è tratta da: https://fazieditore.it/catalogo-libri/io-odio-internet/