Culturificio
pubblicato 1 settimana fa in Letteratura

Emilio Salgari, ovvero il mare inventato

Emilio Salgari, ovvero il mare inventato

Il 25 aprile 1911 a Torino il cielo è velato ma se Dio vuole il rigido inverno di quell’anno, con temperature quasi sempre sotto lo zero e un gelo costante, è diventato solo un ricordo.

La primavera è finalmente arrivata e ha trovato una città in festa.

Fervono gli ultimi preparativi dell’Esposizione Universale, allestita per festeggiare il cinquantesimo compleanno della patria unita e celebrare la sua crescita economica, sociale e culturale.

Si danno gli ultimi ritocchi ai padiglioni delle regioni italiane e dei ventidue paesi stranieri: enormi edifici costruiti in legno e gesso sulle due sponde del Po, tra il Parco del Valentino e il borgo del Pilonetto, ai piedi della collina.

Emilio Salgari, appena giunto da Verona, prese casa qui; una casa piccola vicina al fiume, lontana dal centro.

A lui dell’Esposizione Universale non importava nulla, e nemmeno della primavera. Le stagioni passavano senza che se ne accorgesse; le sue giornate erano sempre uguali, chiuso in casa e attaccato al tavolino malfermo della sua stanza sul quale riempiva instancabilmente fogli e fogli di avventure immaginarie.

Della vita stessa non gli importava più nulla. E la mattina di quel giorno prese un rasoio e due delle tredici lettere che aveva impetuosamente scritto la sera prima e uscì di casa, incamminandosi verso la collina. Dove aveva deciso di andare a morire. Non aveva ancora compiuto quarantanove anni.

Furono quelle due lettere, ritrovate nella tasca della giacca, a consentire l’identificazione del cadavere orribilmente straziato.

La prima era indirizzata ai figli, teneramente amati:

Sono ormai un vinto. La malattia di vostra madre mi ha spezzato il cuore e tutte le energie. Io spero che i milioni di ammiratori che per tanti anni ho divertito e istruito provvederanno a voi. Non vi lascio che 150 lire, più un credito di lire 600, che incasserete dalla signora… Vi accludo qui il suo indirizzo. Fatemi seppellire per carità essendo completamente rovinato. Mantenetevi buoni e onesti e pensate, appena potrete, ad aiutare vostra madre. Vi bacia tutti col cuore sanguinante il vostro disgraziato padre.

La seconda era per gli editori:

A voi che vi siete arricchiti con la mia pelle, mantenendo me e la mia famiglia in una continua semi-miseria ed anche di più, chiedo solo che per compenso dei guadagni che vi ho dato pensiate ai miei funerali. Vi saluto spezzando la penna.

Quest’ultima lettera ha sempre fatto pensare che il gesto estremo di Salgari sia stato dettato dallo sfruttamento del suo lavoro perpetrato negli anni dai suoi avidi editori.

Ma si tratta di una idea sbagliata. La verità è un’altra e quel suicidio non fu dettato tanto da ragioni economiche.

Innanzitutto ha influito l’improvviso ricovero in manicomio della moglie, Ida Peruzzi, avvenuto appena pochi giorni prima, il 19 aprile, in quanto trovata affetta da nevrastenia e divenuta per questo «pericolosa per sé e per gli altri». La diagnosi e in particolare quest’ultima precisazione, sulla base della legge sugli alienati che allora governava le cure nei manicomi, rendevano necessario un immediato internamento.

Prima di quel giorno, e sempre più spesso, la donna era stata assalita da improvvisi scatti d’ira e ribellione, e aveva mostrato una forza patologica e quasi soprannaturale mandando in frantumi grossi bicchieri di vetro con il solo premere del palmo della mano.

Egli aveva come perso all’improvviso la sua amata Aida dopo diciannove anni di matrimonio e quattro figli; aveva perso l’unica donna della sua vita, quella che teneva in mano il timone della famiglia, assecondava le sue fantasie e sosteneva il suo impegno letterario con cieca fiducia e amore incondizionato.

Ma non si trattò dell’unico motivo.

La verità è che l’istinto suicida scorreva di soppiatto nel sangue di Emilio Salgari, frutto avvelenato di un’eredità genetica che prima o poi avrebbe trovato la sua maturazione.

Suicida infatti fu il padre, Luigi, suicida fu anche lo zio, Giovanni. E suicidi furono due dei suoi quattro figli, Romero e Omar. Salgari stesso aveva tentato di mettere fine alla sua vita due anni prima di quella tragica mattina di aprile.

L’esosità degli editori poi non corrisponde al vero.

Con quello più importante, proprio l’ultimo e cioè Bemporad, Salgari nel 1908 aveva sottoscritto un contratto che prevedeva un compenso di 8.000 lire l’anno per tre romanzi. Era stato lo stesso Salgari a imporre queste condizioni: non voleva percentuali sulle vendite ma preferiva riscuotere i soldi pattuiti al momento della consegna del manoscritto, non pensarci più e passare al lavoro successivo. Quei soldi dunque non erano affatto pochi.

Nel 1910 Salgari aveva percepito 8595 lire, un importo di certo non esiguo se si pensa che in quegli anni il direttore dell’Azienda Tramvie Municipali poteva contare su un salario annuo addirittura inferiore: 7500 lire.

Ma lui era fatto così. Viveva avulso dal presente, in un mondo di bugie e false convinzioni alle quali si era così spasmodicamente avvinto da finire per considerarle uniche realtà concrete.

Su una bugia in particolare fu incrollabile, convinto e ossessivo per tutta la vita: il suo avventuroso passato di marinaio. È una storia che raccontò a tutti, perfino a sua moglie appena la conobbe. Anche da scrittore affermato, non più giovane, ha continuato a insistere e propalare la sua fasulla biografia. Racconta a un giornalista:

Ho studiato poco e ho viaggiato molto, arrivando fino alle Stretto di Bering. A Verona, dove sono nato, ho fatto le scuole tecniche. Poi, siccome mio padre aveva altre idee, scagliai il calamaio sulla cattedra e andai a Venezia, per studi nautici, e fui dopo tre anni capitano di lungo corso. Avevo una ventina d’anni; era l’82 o l’83. Ho visto il mondo fumando una montagna di tabacco. In un viaggio stetti sei mesi in navigazione con una sola breve fermata a Ceylon, perché crivellato dai rosicanti…

Nel suo racconto, falso e ossessivo, di vero c’è solo una cosa: la sua frequentazione a Venezia, quando aveva sedici anni, del primo anno per capitano di gran cabotaggio. Ma non essendosi presentato agli esami di riparazione del secondo anno Salgari non conseguirà mai il titolo da lui tanto ambito, quello di Capitano.

Eppure per tutta la vita firmerà così le sue lettere, Capitano Emilio Salgari. È anche certo che a diciotto anni si imbarcò come mozzo sul mercantile Italia Una che navigava lungo la rotta Venezia-Brindisi. Ma qui iniziano e finiscono le sue esperienze di mare.

Salgari quindi non è mai stato Capitano, non ha mai affrontato intrepidi viaggi per destinazioni esotiche, non ha mai visto né tifoni né bonacce, gli oceani li ha conosciuti solo sui libri di geografia e le sue avventure di mare si sono limitate a tre mesi estivi di placida navigazione lungo l’Adriatico, come mozzo.

Ma per difendere la sua vita immaginaria, la sola che ritiene reale, non esita a sfidare tutti quelli che ne mettono in dubbio l’autenticità. Ed è disposto perfino a morire per difendere quelle bugie. Così a ventitré anni, giovane redattore dell’Arena, sfida a duello un tale Biasioli, giornalista dell’Adige, che si era permesso di scrivere che non era mai stato capitano di una nave e che semmai avesse navigato poteva averlo fatto tutt’al più come mozzo.  

Salgari si difende:

Io sono Capitano marittimo di gran cabotaggio e se non ho potuto fino ad ora darmi al mare, gli è perché non ho ancora raggiunto l’età voluta dalla legge per comandare un bastimento.

Nessuno dei due arretra e ritratta e la questione non può che risolversi con le lame dei fioretti. Il duello dura pochissimo. Salgari al primo assalto ferisce l’avversario alla tempia sinistra con un “mulinello di testa” e i padrini mettono fine alla contesa con sua piena soddisfazione. Tutti adesso lo dovranno chiamare così, il Capitano; nessuno avrà più l’ardire di mettere in dubbio il suo titolo se non a rischio della propria vita.

Immaginazione e realtà si sovrappongono fino a diventare una cosa sola.

Attraverso i suoi personaggi Salgari cercò di vivere la vita che avrebbe voluto. E si identificò con loro, ricreando in casa la stessa atmosfera dei suoi libri.

Non chiamò mai Ida la moglie, bensì Aida, come la figlia del re degli etiopi di verdiana memoria, e diede ai propri figli il nome di Fatima, Nadir, Romero e Omar. La sua esperienza reale e quotidiana assumeva i contorni di una storia avventurosa. Persino i suoi affetti più cari diventavano i personaggi dei suoi libri.

Sul tavolino zoppicante sul quale scriveva aveva appoggiato pugnali, statuette di divinità indiane, collane di conchiglie, cristalli di minerali, pistole ad acciarino, un mappamondo e una bussola.

Alle pareti aveva appeso fucili e archibugi, un arco con la freccia, uno scudo rotondo di cuoio, varie funi, una fiocina, reti da pesca e foglie di palma rinsecchite. Salgari aveva trasformato il mondo nel quale viveva in un universo magico e completamente inventato, simile a quello nel quale ambientava i suoi racconti.

La stanza era piccola, e addobbandola così Salgari poteva immaginare di essere nella cabina di una nave, quella di cui era il Capitano. Per questo il tavolino malfermo sul quale scriveva continuava a traballare. Non era l’usura o la cattiva costruzione ma il beccheggio portato dalle onde; e a questo non si poteva porre rimedio.

Scriveva tutti i giorni: alla mattina presto, prima di pranzo, e il pomeriggio, dalle cinque alle otto. Lo faceva con un’unica penna, una cannuccia con il pennino legato con lo spago, e con lo stesso inchiostro bluastro, che si fabbricava da solo usando le bacche del giardino.

Scriveva rapidissimo, nervosamente, senza rileggere. Ma per farlo doveva aiutarsi con cento sigarette al giorno e abbondanti dosi di marsala.

Non ha mai posseduto un libro di viaggio, di esplorazione o di scienza né un atlante o un dizionario. Eppure ha ambientato le sue fantastiche avventure in ogni parte del mondo. Quando aveva bisogno di fare qualche ricerca andava in biblioteca. Lasciava allora la sua cabina, indossava il suo soprabito giallo, corto e chiuso fino alla gola, prendeva la sua canna da passeggio e la paglietta se era estate, si accendeva l’immancabile sigaretta e usciva, avviandosi verso la fermata del tram. Per il resto inventava, perché aveva una fantasia prodigiosa.

Era arrivato a Torino all’età di trentun anni, su suggerimento di un ex insegnante, l’abate Caliari, secondo il quale in questa città sarebbe stato possibile vivere di scrittura collaborando a una serie di pubblicazioni per ragazzi di proprietà dell’editore Speirani.

Ma a Grissinopoli, come cominciò ben presto a chiamarla, non si ambientò mai; la città gli rimase per sempre estranea e cambiò casa due volte. Rimase affezionato solo alla prima, in Corso Casale 278, per il Po: non era mare ma era pur sempre acqua, acqua navigabile. E poi per il giardinetto, dove poteva dare ricovero al suo serraglio. Ebbe una scimmia, un gatto, un cane, una gallina, una tartaruga, uno scoiattolo e un’oca. Diede un nome a tutti, nell’ordine; Peperita, Tigrotto, Ninì, Lampo (la tartaruga!), Madama Sempronia.

Tra figli e animali era una colonia numerosa e colorata; insieme potevano forse essere felici, se qualcosa non avesse continuato a scavare nell’ombra.

Salgari aveva già tentato il suicidio nel 1909. Ce lo rivela in una lettera il suo dottore, Arminio Heer:

Conobbi Emilio Salgari in principio del 1909, quando egli abitava in un modestissimo appartamento di poche camere a pianterreno della casa sita in corso Casale 278, dirimpetto al dazio della nuova barriera di Casale; vi abitava colla moglie e quattro figliuoli, ancora in tenera età ed a carico. Mi onorava della sua fiducia come medico di famiglia e sovente io ero chiamato a prestare l’opera mia o per lui o per la famiglia. Eppure Emilio Salgari, così gioviale, così socievole dissimulava l’interno affanno dell’animo suo e meditava il suicidio. Tentò una prima volta di suicidarsi nel suo alloggio di Corso Casale 278, lasciandosi cadere colla metà sinistra del torace su una spada acuminata; fortunatamente il tentativo andò a vuoto perché l’arma strisciando sotto le pareti molli non penetrò in cavità toracica, per cui, chiamato d’urgenza, potei dichiararlo fuori pericolo. La povera moglie che lo adorava e non l’abbandonava mai era corsa in tempo ed era merito suo se questo primo tentativo era andato a vuoto».

Salgari si trasferì poi in Corso Casale 205, in tre stanze al primo piano. L’affitto era più economico ma perse il giardino e con esso il suo festoso serraglio.

Quella fu la sua ultima casa. È da lì che si incamminò la tragica mattina del 25 aprile 1911. La sua camminata si fermò dopo poche centinaia di metri, in Valle San Martino. Lì venne trovato il suo cadavere, orribilmente squarciato. Con il rasoio si era aperto il ventre e poi la gola.

Nella città pavesata a festa la morte di Emilio Salgari passò in un silenzio quasi assoluto.

di Teodoro Lorenzo