Epica antica: un genere per soli uomini?
Il dibattito su quale e quanto influente sia la presenza femminile nell’epica antica è ricco di stimoli per riflessioni un po’ più ampie di quelle strettamente legate al testo e, forse, racconta qualcosa di più sulle caratteristiche e composizione della società arcaica.
Da Omero a Claudiano, l’epica greca e latina, è stata composta dagli uomini, per gli uomini e sugli uomini. L’aedo che si occupava di trasmettere il testo era un uomo, anche nella finzione del racconto (lo erano infatti Demodoco e Femio), e tanto i critici dell’antichità quanto i moderni non hanno mai dubitato del fatto che dietro a quella misteriosa figura, quale è quella di Omero, si celasse un uomo, o, beninteso, un gruppo di uomini. Ed in effetti non si può non ravvisare nel contesto epico la preminenza dell’espressione di un’identità sociale maschile, non solo per ciò che concerne la guerra ma anche la memoria degli avi. Platone stesso si accorse dell’interdipendenza di queste due funzioni: l’educazione di chi “verrà in seguito” e la commemorazione di un passato di uomini gloriosi (R. 10606e).
Infatti, bisogna considerare come questo accada continuamente all’interno dei due poemi cardine dell’epica greca, i più giovani ricevono dagli anziani istruzioni sull’etica e sul comportamento, un esempio fra tutti, Peleo al figlio Achille: “Sii sempre il migliore e distinguiti dagli altri” (Il. 6208). Ma situazioni di questo tipo non mancano neppure nell’Odissea, in cui Telemaco è sistematicamente redarguito e seguito nel proprio percorso di crescita da personaggi surrogati del padre che gli pongono a modello il cugino Oreste o, addirittura, Odisseo medesimo. In conseguenza di ciò, e poiché l’epica omerica ebbe un ruolo paideutico centrale nella cultura greca antica, le gesta esemplari dell’agathos, quale è l’eroe epico, divennero veramente fonte di emulazione non soltanto dagli eroi epici coevi, reali o finzione che fossero, ma in generale dai posteri, i quali furono, così, sempre invitati dai propri maestri a volersi specchiare, un giorno, nella figura di un Odisseo o di un novello Achille. Le prove di un tale atteggiamento, d’altra parte non mancano, racconta infatti Strabone che persino Alessandro Magno era solito portare con sé una copia dell’Iliade in modo tale da seguire le orme dei propri predecessori.
Ad ogni modo, a riprova del fatto che fossero gli uomini a imporsi come protagonisti di questo genere così noto ed importante, citiamo – sulla scia di un saggio di A.M.Keith, Engendering Rome – Institutio Oratoria, in cui Quintiliano non reperì alcun indizio della presenza femminile, ma soprattutto Stazio, suo contemporaneo, che non incluse nel proprio catalogo di autori epici alcuna donna:
(Silv. II,7, 75-80)
cedet Musa rudis ferocis Enni
et docti furor arduus Lucreti
et qui per freta duxit Argonautas,
et qui corpora prima transfigurat
quid? Maius loquar: ipsa te latinis
Aeneis uenerabitur canentem.
É, a mio avviso evidente, che il canone delineato dall’autore sia prettamente maschile: cominciamo infatti con Ennio, inventore dell’esametro, poi Lucrezio, il dibattuto autore delle Argonautiche, Ovidio e Virgilio, che, dice, si inchinerà al cospetto dell’ancora incompiuto “Bellum ciuile” di Lucano. Questi pochi versi di Stazio forniscono informazioni importantissime perché evidenziano la presenza di una tradizione consapevole e cosciente di se stessa per quel che riguarda la poesia epica latina. Essa è infatti “il più grande compimento delle azioni dei padri”, (maxima facta patrum, Enn.), in primo luogo nel contesto bellico “arma uirumque” (Aen. I,1) ma anche nell’ammministrazione dello stato e di quello che un giorno sarà il vastissimo Impero Romano “moribus antiquis res stat romana virisque” (ancora Ennio, Annales).
Eppure se ci si soffermasse ad elencare prove e riprove di una preponderanza maschile, non sussisterebbe alcun dibattito. Bisogna allora menzionare quegli studiosi che hanno creduto di scorgere nella sensibilità con cui furono dipinte le figure delle donne la scia di una composizione squisitamente femminile. È il caso di Samuel Butler in “The Authoress of the Odyssey”, il quale giunge addirittura ad affermare che fu una donna, e non Omero, a comporre i poemi. Lilian Doherty corregge il tiro e mitiga l’affermazione dello studioso sostenendo che, in realtà, gli elementi che egli tratta come prova inconfutabile della presenza di un’autrice sono prova, più in generale, di un’inclusione cosciente del genere femminile nell’epica antica. Quale che sia la misura in cui la donna è presente, senza dubbio Butler ha il merito di rinvigorire il dibattito. E, ad esempio, si consideri il terzo libro dell’Iliade, in cui Elena, intenta a tessere una tela, dipinge la guerra di Troia come azione volta alla propria salvezza e si autorappresenta sulla tela stessa. È giocoforza ammettere che questa autorappresentazione sia, più profondamente, la rappresentazione di quanto la donna, insieme alle attività che le erano pertinenti, fosse coinvolta e parte integrante delle vicende.
Iliade III (in traduzione di Vincenzo Monti).
Trovolla che tessea a doppia trama
una splendente e larga tela
e su quella istoriando andava le fatiche
che molte a sua cagione
soffriano i Teucri e i loricati Achei […]
Come vider venire alla lor volta la bellissima donna
i vecchion gravi, alla torre seduti
con sommessa voce tra loro venian dicendo:
in vero biasmare i Teucri né gli Achei
si denno se per costei sopportano sì diuturne e dure fatiche.
Naturalmente in questo passo emerge in primo luogo la colpa attribuita alla figlia di Zeus da parte degli anziani; eppure Elena si reca sulle mura perché Iride, messaggera degli dei, la persuade, segnalando a chi legge (o ascolta) che persino gli dei la considerano figura imprescindibile di questa vicenda. Assumendo, dunque, questa partecipazione e coscienza di sé femminile, possiamo giungere ad affermare, più nello specifico, che l’epica indaga anche e soprattutto l’incidenza delle convenzioni sociali, i rapporti fra generazioni e sessi. Quest’ultima in particolare è, secondo me, tendenza precipua dell’epica latina, la quale si occupa soprattutto e sistematicamente di costruire e mantenere una sorta di ordine sociale, includendo appunto la relazione fra i due sessi. É vero, l’epica latina riguarda gli uomini, riguarda Roma ma, ancor di più, come sostiene Teresa De Lauretis, trasforma il carattere sessuale biologicamente inteso in un fattore culturale: il genere. Ed è questo che bisogna accettare, in ultima istanza, la presenza, in un genere letterario che appare quasi del tutto dominato dall’uomo, di un coinvolgimento femminile tutt’altro che banale o superficiale e che riflette una società complessa che è consapevole di quel che traspone e trasmette attraverso la propria letteratura.