Fin de partie. Thomas Bernhard e io
Tra i libri usciti in questi ultimi mesi, ne cito un paio. […] Se penso al Soccombente di Bernhard, Il Superlativo assoluto di Rugarli, pressoché qualsiasi libro di Savinio, riconosco libri dalla trama esile, dal tema forte. Non amo i libri con una ‘storia’ che mi costringe a tener presente chi è il marito, chi l’amante, chi lo zio matto, chi è povero e chi è ricco; a metà libro comincerei a far confusione. Un libro esemplare di storia raccontabile ma che non serve raccontare è La morte di Ivan Il’ič. Questi libri che hanno esigua storia hanno talora, non sempre, una pagina; cioè, sono intensamente scritti. Posso dimenticare i nomi dei protagonisti, ma mi resterà in mente il rumore sottile della prosa. Sono inconfondibili: sono i libri che talora affaticano alla prima lettura, ma sbocciano superbamente ad una rilettura; e sono libri che vogliono la rilettura (G. Manganelli, Il rumore sottile della prosa)
Purtroppo per voi, una delle spiacevoli conseguenze di queste riletture sono io che vaneggio su Bernhard.
Come il principe di Saurau, l’allucinato solipsista di Perturbamento, anche io faccia a faccia con un suo testo mi trovo calato a picco in un «groviglio di linee»: per una libera associazione, a dispetto delle inopinabili differenze, l’ho concatenato al gomitolo del nonno ingegnere, «o groviglio», appunto, «o garbuglio», o alla romana «gnommero»; un «groviglio di linee», cioè, quello di Thomas Berhard, distante il giusto dal pasticcio dell’ingegner Gadda, Carlo Emilio – quel genio brontolone che appena l’altro ieri, inventando un vocabolario che non somiglia neanche a sé stesso, ha creato uno stile.
Ma ecco Bernhard:
Misere esistenze, penso, caro dottore, misere esistenze. È un paesaggio, quello, che tollera soltanto un minimo vitale. Vi predomina un color verde-nero, un color nero-verde, un’oscurità tanto grande da escludere addirittura il suicidio. Il pensiero di questa gente è sempre sul punto di annegare, la voglia di vivere sul punto di spegnersi, tutto gela e si congela, a turno. Dunque, gli domando, come vanno adesso le cose nella Bundau? Sempre lo stesso, dice Huber. Dice più volte, caro dottore: Sempre lo stesso.
Oppure:
Quando il principe diceva gente, a me sembrava che volesse indicare la sua immensa distanza dalla gente. «Il fatto che in passato anch’io, proprio come Lei, dottore,» continuò il principe «avessi tante difficoltà a cogliere ovunque, all’interno di un unico problema, di un unico tema, di una tematica, di un flusso di pensieri, i punti più alti e quelli più profondi, punti che, a quanto pare, vengono ancora pericolosissimamente distinti, al fine di poter poi analizzare e dominare, intendere insomma uno di questi temi, pensieri, o flussi di pensieri in maniera quanto meno inconsueta, questo fatto mi sembra fatale se considero lo stato di assoluta fatalità che ora, se voglio dare un senso alla mia esistenza, mi costringe sempre a operare contemporaneamente in tutti gli spazi possibili e immaginabili, in strutture di cui sappiamo con orrore che ormai non hanno più confini […]».
È Perturbamento, e questo fantoccio ubiquo si staglia da uno splendido volume adelphiano a cura di Eugenio Bernardi. Saurau, l’eccellente deviato che si incaponisce in un monologo involuto, parla come Bernhard scrive, e lo straparlare del principe mi è parso una falsa mimesi, un parlato che claudica per finta, un messaggio subliminale smaccatamente narrativo. Ho pensato pure che lì Bernhard stesse scimmiottando un certo scrittore austriaco suo malgrado, tale Thomas Bernhard, masochista e insieme sadico delle lettere, Bernhard che in una vertiginosa camminata ai margini di un bosco vende l’anima alla ricorsività, si fa beffe delle parole e lo stesso gli sacrifica una vita – se già il tempo delle prime poesie era quello in cui «esistevo soltanto quando scrivevo».
Quasi in principio fu Amras, una salmodia apocrifa, libro «sonnambulicamente esatto», come afferma lo stesso Bernhard in un’intervista riesumata da poco per il lettore italiano (Una conversazione notturna, Portatori d’acqua, traduzione di Elsbeth Gut Bozzetti). Così si legge in una pagina del romanzo, sotto la straniante copertina monocroma – sarà viola? – dell’edizione einaudiana:
Ci meravigliavamo di essere ancora vivi… di esistere ancora, di avere di nuovo il coraggio di esistere, di non essere stati allontanati dal mondo, eliminati insieme ai nostri genitori… di non avere ancora iniziato una trasformazione… Eravamo pronti a morire… avevamo confidato ciecamente nei nostri genitori, ubbidito a nostro padre… ci sentivamo sicuri della nostra morte… ma non ci era stato permesso di morire… Iniziati al complotto della morte, nelle ultime settimane trascorse in casa, in realtà ci sentivamo già liberati, nella consapevolezza di morire, di avere il permesso di morire, la prospettiva che presto saremmo morti ci aveva pacificati entrambi… (traduzione di Magda Olivetti).
E verso la fine, un po’ à la Cioran:
La consapevolezza che tu non sei che frammenti, che i periodi lunghi o brevi e anche quelli lunghissimi non sono che frammenti… che la durata delle città e dei paesi non è altro che frammenti… anche la terra un frammento… che tutta l’evoluzione è un frammento… che l’interezza non esiste… che i frammenti si sono sempre formati e continuano a formarsi… nessuna via, soltanto arrivi… che la fine è priva di consapevolezza… che, dopo, nulla esiste senza di te e che di conseguenza non esiste nulla…
Durante la Conversazione notturna di cui sopra, a una domanda sull’onnipresenza della morte, Bernhard ribatte che «pensarci è gradevole», perché «quando qualcuno muore, il suo viso torna a essere com’era in origine, del tutto rilassato. L’uomo, finché vive, è costantemente contratto, e soltanto quando muore si distende. Vive davvero, per la prima volta, soltanto quando è morto, nell’istante in cui non si è ancora irrigidito. È quello, l’uomo».
Non sorprende che, oltre a Portatori d’acqua, SE (Cemento, In hora mortis, la prima edizione di Amras), Einaudi (Amras, sempre tradotto da Magda Olivetti, Il gelo, il teatro), Guanda e Crocetti (le poesie), l’editore nostrano dello scrittore austriaco sia Adelphi. Attraverso migliaia di pagine, infatti, forse Bernhard lavora a un «libro unico», frutto di una scrittura meravigliosamente estenuante. «In fondo tutto ciò che viene detto è citato», scrive verso l’inizio di Camminare. Ma basta leggere ancora Perturbamento, e fidarsi di una delle tante allusive castronerie del principe: «Di me però, caro dottore», confessa Saurau, «Lei sa che io parlo soltanto fra virgolette, tutto quello che dico è detto soltanto fra virgolette!». La cicatrice di Montaigne, il narratore inattendibile, la letteratura come menzogna. Niente più che un mosaico di citazioni, insomma? Basta un esergo di Pascal a suggellare Perturbamento? E chissà quanti stralci potrei citare come assoluzione per la mia mancanza di coraggio, quella che mi trattiene dal commentarlo sul serio, se sopportassi il mio silenzio.
Ecco un altro compagno per gli antichi maestri, Thomas Bernhard, ultimo tra gli scrittori che mi scardinano. Uno stile unico che si traduce una stasi rapsodica; l’ekphrasis, tutta mentale, di un campo brullo e sterminato. Bernhard come vagabondo geniale e un po’ avvinazzato della parola, un ambulante burbero vestito di stracci, sradicato arbitrariamente dalle meningi di un altro antico maestro, tale Handke, Peter, autore di un giallo metafisico omonimo, L’ambulante, del 1967, dato alle stampe dunque lo stesso anno di Perturbamento: lì un marchingegno asfissiante, una metaletterarietà scoperta che denuncia, a ogni piè sospinto, un gioco alogicamente irreprensibile; qui un triangolo di Penrose crepato, una beffarda e invertita sequenza di Fibonacci, un’aritmetica dell’esaurimento, un crittografato giuoco dell’oca (sic). Handke, di lingua tedesca, è nato a Griffen: quasi dall’altra parte dell’Austria.
Sul tedesco il protagonista di Estinzione, l’ultimo e più corposo romanzo di Bernhard, dirà che «a guardar bene, è brutta, e non solo, come si è detto, schiaccia a terra ogni cosa pensata, ma falsifica tutto con la sua pesantezza, in maniera effettivamente meschina, non è per nulla in grado di restituire effettivamente una verità come quella effettiva verità, falsifica tutto per sua natura, è una lingua cruda, senza alcuna musicalità, e se non fosse la mia lingua madre non la parlerei». Forse è anche questa la ragione delle sue traiettorie formali: la cadenza che deriva dall’impossibilità di una frase piana, il disprezzo radicale per le trame, un lessico scaleno e autobiografico, incapace di grandi variazioni – o, come in un pensiero delirante del principe di Perturbamento, «tutto il lessico, un lessico enorme e micidiale che è sempre presente anche quando, anziché essere usato, viene represso».
Perturbamento (1967) o Il soccombente (1983), proprio per le loro nevrosi iterative, mi hanno ricordato prima Le tram (2001) di Claude Simon e poi, à rebours, l’Opera galleggiante (1956) di John Barth – da una parte la nostalgia della madre e del significante, dall’altra l’isteria sintattica di una farsa, la parodia di una pantomima d’autore. Per entrambi i romanzi consonanti e paragrafemi, sillabe, parole, sintagmi, frasi o periodi che ritornano come un trauma infantile, anche a distanza di parecchie pagine, da un capo all’altro del libro. Sulle prime, senza il coraggio necessario a prenderlo di petto, ho silenziato Bernhard e ho tentato di violentarlo teoricamente, ho rispolverato qualche libro di teoria della letteratura, Eco su tutti, oltre ai romanzi degli altri, alla ricerca di una teoria della citazione che potesse contenerlo. Simon e Barth, gli sperimentali, i postmoderni, da noi Malerba (Salto mortale?), Calvino viaggiatore invisibile, Eco che mette in bocca ai suoi personaggi citazioni iperletterarie e i potenzialmente infiniti scrittori che (si) ripetono, però, non c’entrano niente. Vicoli ciechi ad infinitum. Neanche i critici mi sono stati d’aiuto. E finora credo che Amras, Perturbamento e Il soccombente siano il viatico teorico più congeniale per questo scrittore, nato da tre giorni in un paesino olandese, Heerlen, e morto il 12 febbraio del 1989, proprio oggi, a Gmunden, sull’odiatissimo suolo austriaco.
L’assenza e il suicidio del padre, lo sradicamento esistenziale, il gelo. Bernhard si vota alla carta tra ospedali e sanatori, sotto pseudonimo. Dalle poesie, ravanelli nichilistici impregnati di concime, vira presto sulla prosa grazie a racconti, romanzi e soprattutto al teatro. Amras, Perturbamento e Il soccombente, dicevo, e neanche mentre scrivo so bene dove andarmi a impelagare. Forse da nessuna parte.
Non so perché consiglierei un suo libro, a caso, non importa quale. Direi perché chiunque, alzando gli occhi al cielo dopo l’ultima parola, potrebbe credersi il protagonista della tragedia o lo scemo del villaggio; massificato in una processione laica, forse si sentirebbe parte di una schiera di emarginati, o di bulimici metafisici: a debita distanza, codardamente protetto, potrebbe immaginarsi, come me, a contemplare quella pantera che prende il posto del digiunatore, seppellito insieme alla paglia, in un raccontino di tale Kafka, Franz, altro demiurgo postumo di lingua tedesca – Kafka, Handke, Bernhard e tanti altri, tutti fuori dalla Germania.
A Zürau, d’altronde, dopo le parole, riposa anche Bernhard: «c’è una meta, ma non una via; ciò che chiamiamo via è un indugiare».