Ginestra o “fiore del deserto”
“obblio preme chi troppo all’età propria increbbe”
Scritta nel 1836 alle falde del Vesuvio, questo canto rappresenta l’ultima poetica leopardiana.
Leopardi abbandona una prospettiva idilliaca per proporre una nuova utopia solidaristica, l’ultima, assente nelle opere precedenti.
La necessità dell’unione degli uomini per prendersi la propria rivincita.
Il poeta recanatese con un’aspra polemica nega le correnti spiritualistiche ed un facile illuminismo.
L’atteggiamento è del tutto razionale nei confronti dell’agire umano, consapevole dei suoi limiti ma con una fierezza della resistenza nei confronti di una natura incontrastata che oramai sembra aver perso.
L’unica forza dell’uomo risiede nella consapevolezza dell’esistenza della razza. Difficile non sottolineare la polemica contro coloro che facevano della religione un rifugio dal male.
La ragione è un importante sistema conoscitivo, capace di svelare le contraddizioni del reale. Non ci porterà alla felicità, anzi ci porterà a farci sentire più intensamente la nostra infelicità ma ci rende consapevoli, liberandoci da false credenze, donandoci la dignità della consapevolezza.
Sottolineando la differenza che intercorre tra Uomo e Uomo e tra Uomo ed esseri viventi, Leopardi ci delucida su quelle che sono le differenti consapevolezze di intensità dell’infelicità. Una realtà che prima di lui nessuno era arrivato ad ammettere come dominante nell’intero creato.
La Ginestra ha un forte rimando, una sopravvivenza culturale. E’ doveroso ricordare, spiega Leopardi, che tale fiore è presente nei monumenti testimonianti la grandezza di ciò che fu.
Se “La Ginestra” rappresenta l’unica esperienza poetica dove lo spazio ed il tempo sono “hic et nunc” , allora forse non è incauto affermare che in questa ode il poeta non è più fuori dalla natura. Qui c’è la volontà di esserci nella natura, di far parte del mondo fenomenico.
Un punto cruciale, dove il fiore non è solo testimone della grandezza dell’uomo . Poiché, testimoniando l’inevitabile ciclicità della storia, questo fiore rappresenta ciò che l’uomo ha ormai dimenticato, la facoltà di resistere.
Ed è questo il messaggio che l’uomo dovrebbe imparare. La vita dell’uomo non è diversa da quella della Ginestra, viene abbattuta ogni convinzione titanica. Ma la Ginestra sa alzare il “corpo” nei confronti di una lava che la sovrasta.
“…Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
E’ il gener nostro in cura
All’amante natura. E la possanza
Qui con giusta misura
Anco estimar potrà dell’uman seme,
Cui la dura nutrice, ov’ei men teme,
Con lieve moto in un momento annulla
In parte, e può con moti
Poco men lievi ancor subitamente
Annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
Son dell’umana gente
Le magnifiche sorti e progressive.”
Nelle città schiacciate dalla lava del vulcano, cos’è l’uomo rispetto alla natura?
Se nell’universo non contra nient’altro che il processo di costruzione e distruzione allora la cultura, regredendo, perché chiama tale processo “progresso”?
Il linguaggio del canto si fa volutamente eroico. Anche sul piano concettuale l’eroismo ritorna, ma non in una negazione dell’esistenza ma nella consapevolezza di dover sopportare il peso della propria esistenza, fieramente come la Ginestra.
Quando l’uomo avrà preso tale coscienza, dell’importanza di un patto sociale su una razionalità che prevede di resistere al potere della natura, allora l’uomo avrà imparato a vivere.
E solo da un fiore può impararlo.
Leopardi si ridipinge nel paesaggio come facente parte della natura. Vedendo il cielo si può immaginare come da un’altra prospettiva il mondo possa essere visto. La prospettiva cambia, e noi non siamo nulla se non un punto, poco luminoso rispetto all’universo.
Si approda ad un rigoroso materialismo, che si esprime in più riflessioni. Un universo come ciclo di produzione-distruzione della materia e sull’assenza di disegni provvidenziali.
Per la superbia degli uomini Leopardi prova solo pietà.
Il Vesuvio distrusse fulcri di civiltà lasciando solo cenere. La natura non conosce vincitori ma solo vinti, non tiene l’uomo in maggior conto rispetto agli animali. Ma l’uomo non ha ancora imparato a sottrarsi ad essa.
La resistenza umana è pari a quella del villanello, sola e senza alcuna valenza. La natura maligna è identificata come una donna.
Una natura che procede incontrastata al di la della vita degli uomini, dove il procedere sembra lo stare.
“[…]E spesso
Il meschino in sul tetto
Dell’ostel villereccio, alla vagante
Aura giacendo tutta notte insonne,
E balzando più volte, esplora il corso
Del temuto bollor, che si riversa
Dall’inesausto grembo
Sull’arenoso dorso, a cui riluce
Di Capri la marina
E di Napoli il porto e Mergellina.
E se appressar lo vede, o se nel cupo
Del domestico pozzo ode mai l’acqua
Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
Desta la moglie in fretta, e via, con quanto
Di lor cose rapir posson, fuggendo,
Vede lontano l’usato
Suo nido, e il picciol campo,
Che gli fu dalla fame unico schermo,
Preda al flutto rovente
Che crepitando giunge, e inesorato
Durabilmente sovra quei si spiega.
Torna al celeste raggio
Dopo l’antica obblivion l’estinta
Pompei, come sepolto
Scheletro, cui di terra
Avarizia o pietà rende all’aperto;
E dal deserto foro
Diritto infra le file
Dei mozzi colonnati il peregrino
Lunge contempla il bipartito giogo
E la cresta fumante,
Ch’alla sparsa ruina ancor minaccia.
E nell’orror della secreta notte
Per li vacui teatri, per li templi
Deformi e per le rotte
Case, ove i parti il pipistrello asconde,
Come sinistra face
Che per voti palagi atra s’aggiri,
Corre il baglior della funerea lava,
Che di lontan per l’ombre
Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
Così, dell’uomo ignara e dell’eta di
Ch’ei chiama antiche, e del seguir che fanno
Dopo gli avi i nepoti,
Sta natura ognor verde, anzi procede
Per sì lungo cammino,
Che sembra star[…]”
Dopo essere partito in apertura con la Ginestra, Leopardi ci ritorna in chiusura , come testimone di un atteggiamento che l’uomo non riesce a far proprio. Una presa di coscienza dell’essere finiti, la caduta dell’illusione di una gloria duratura, un’illusione tra le più care.
L’uomo somatizza il tempo, lo interiorizza, non si accorge di un tempo che scorre fuori di lui.
La lotta dell’uomo contro la natura è impari, ma la forza è il non arrendersi. In un sistema dove egli è contemplato come vittima, l’unica via di uscita è crearne un altro, dove si fa della propria debolezza una forza. Non fondata sulla paura ma su un titanismo. Tutto questo, la Ginestra, lo ha compreso pienamente. Sa di non essere renitente poiché non finge un destino di immortalità che l’uomo deve ancora comprendere.
“[…]E tu, lenta ginestra,
Che di selve odorate
Queste campagne dispogliate adorni,
Anche tu presto alla crudel possanza
Soccomberai del sotterraneo foco,
Che ritornando al loco
Già noto, stenderà l’avaro lembo
Su tue molli foreste. E piegherai
Sotto il fascio mortal non renitente
Il tuo capo innocente:
Ma non piegato insino allora indarno
Codardamente supplicando innanzi
Al futuro oppressor; ma non eretto
Con forsennato orgoglio inver le stelle,
Nè sul deserto, dove
E la sede e i natali
Non per voler ma per fortuna avesti;
Ma più saggia, ma tanto
Meno inferma dell’uom, quanto le frali
Tue stirpi non credesti
O dal fato o da te fatte immortali. […]”