Gli epigrammi latineggianti di Beppe Fenoglio
Tazio che evade l’imposta di famiglia,
Tazio che importa il vino senza dazio, […]
Tazio ch’ebbe l’orgoglio d’esser vile,
Tazio che dié del scemo ai fucilati,
Tazio che sulla scheda elettorale
Scrive «Merda!», «Cornuti!» «Abbasso tutti!»
Tazio…
Quando si legge o si parla di «epigrammi» non si può fare a meno di pensare a Gaio Valerio Marziale, poeta latino che visse nel I sec. d.C. (orientativamente dal 40 al 102-104) e che grazie alla sua abbondante e originale produzione si impose poi come epigrammista per eccellenza, come vero e proprio classico, modello poetico con cui tutti gli epigrammisti successivi si sarebbero dovuti inevitabilmente misurare. Eppure, basta una lettura attenta dei pochi versi che ho riportato sopra per accorgersi che c’è qualcosa che non va: fucilati? scheda elettorale? Ma com’è possibile trovare un epigramma che parli di queste cose? Ecco, vi stupirà sapere che l’autore di questi versi non è un antico poeta latino ma Beppe Fenoglio (1922-1963), scrittore a noi noto soprattutto per i suoi originalissimi libri sulla Resistenza, non tanto per le sue poesie.
Ma mi accorgo che bisogna fare subito un po’ di chiarezza, facciamo qualche passo indietro. Che cosa significa «epigramma», e di che particolare tipo di composizione poetica si sta parlando? Il termine deriva dal greco antico ἐπί-γράφω (letteralmente: “scrivere sopra”) e in origine indicava un’iscrizione funebre – che poteva essere di uno o due versi – apposta su lapidi di pietra o di bronzo. Abbiamo quindi una prima caratteristica (la più importante) dell’epigramma: la brevità. In seguito, verso la fine dell’età arcaica e con l’avvento dell’età classica, si passò a definire con questo termine qualsiasi composizione relativamente breve, e non più di soli due versi ma anche di cinque, dieci, etc.: si venne così a creare un filone poetico che spaziava dagli argomenti funebri a quelli conviviali, e che poteva avere toni delicati, mesti, burleschi, licenziosi o addirittura indignati e aggressivi. Testimonianza importantissima dell’epigrammatica greca è l’Antologia Palatina, una silloge di vari autori antichi composta a Bisanzio nel X secolo.
Marziale, come già altri prima di lui avevano fatto (tra tutti, Catullo), recupera questa tradizione poetica e la rielabora con originalità: la sua è una poesia breve e diretta, che predilige i temi scherzosi e mordaci ma ha pure accenni erotici, funerari o descrittivi. La lingua di Marziale è vicina al parlato, semplice e chiara, legata alla realtà quotidiana così come la sua stessa poetica; d’altronde lo dice lui stesso: «Non hic Centauros, non Gorgonas Harpiyasque | invenies, hominem pagina nostra sapit», “Qui non troverai né Centauri né Gorgoni né Arpie: la mia pagina ha sapore di uomo”, che vale a dire: faccio poesia su Roma e i Romani, non sugli dèi o la mitologia, e intendo parlare della vita di tutti i giorni. Ma Marziale vuole soprattutto divertire; e il ritratto che egli traccia della capitale dell’Impero e dei suoi abitanti – di là di qualche carme più celebrativo, soprattutto rivolto a suoi amici, o a ragazze e giovinetti di cui si è invaghito – origina un vero e proprio campionario umano, di certo edificante ma anzi tragicomico: delatori, approfittatori, clienti che vivono come parassiti, ricche matrone piuttosto libertine, imbroglioni, ladri, sfruttatori, etc. etc.
Poesia del vizio dunque, testimonianza della degenerazione di un mondo, quello romano, che pure nell’età dei Flavi stava attraversando una fase di grande benessere economico. Naturalmente non mancano epigrammi più aggressivi e sboccati, specie quando la materia è quella del sesso; carmi che sono stati spesso espunti da molte edizioni di Marziale, perché ritenuti (in maniera molto ipocrita, a mio parere) obbrobriosi e indecenti, e che invece sono davvero esilaranti. Vediamone uno:
Stare iubes semper nostrum tibi, Lesbia, penem:
crede mihi, non est mentula quod digitus.
Tu licet et manibus blandis et vocibus instes,
te contra facies imperiosa tua est».“Tu, Lesbia, vuoi che l’abbia ritto all’infinito,
credimi, il cazzo non è proprio uguale a un dito.
Tu l’accarezzi parlandogli da amico,
ma il fare tuo impetuoso ti è nemico.
Ma torniamo a noi. Proprio per questa sua generale aggressività, Marziale venne a contrapporsi, nell’immaginario poetico successivo, all’eleganza di Catullo e dei poeti greci dell’Antologia Palatina; ma se esaminiamo la produzione di Catullo, in mezzo ai tanti carmi soavi ed elevati che abbiamo imparato ad apprezzare a scuola, ce ne sono altri che non hanno nulla da invidiare ai toni di alcuni epigrammi erotici di Marziale.
A due personaggi, Furio e Aurelio, che lo prendono in giro per via delle sue poesie d’amore, lontane dalla morale tradizionale, e lascive ed effeminate, Catullo risponde con molta aggressività (nel carme XVI) puntando tutto sull’attacco sessuale:
«Pedicabo ego vos et irrumabo,
Aureli pathice et cinaede Furi,
qui me ex versiculis meis putastis,
quod sunt molliculi, parum pudicum».“Io ve lo metterò in culo e in bocca,
Furio culattone, Aurelio finocchio,
che tacciate me di impudico
per via di versi un po’ arditi”
In ogni caso questa contrapposizione Marziale/Catullo s’impose ugualmente, e quando con l’avvento dell’Umanesimo e poi del Rinascimento si recuperò la cultura classica, si crearono anche due filoni nella produzione epigrammatica – e a fasi alterne, prevalse o una linea o l’altra. C’è chi dice, tra le altre cose, che persino la tecnica del sonetto, per la sua brevità, debba molto agli epigrammi antichi.
Si ricominciò così a scrivere epigrammi. Ne pubblicò Poliziano, il grande umanista e poeta della corte di Lorenzo De Medici, direttamente in greco e latino; e ne composero (anche e poi soprattutto in volgare) Ludovico Ariosto, Niccolò Machiavelli, Michelangelo Buonarroti, Pietro Bembo e Giovan Battista Marino – il quale ne dedicò uno a Martin Lutero che comincia così: «Volpe malvagia, che ‘l terren fiorito | de la vigna di Cristo incavi e rodi».
Il Settecento è poi un secolo di grande importanza per l’epigrammatica, e non solo in Italia: in Francia, per esempio, Voltaire si impone come il maestro nel genere. Viene soprattutto ad affermarsi la tecnica della polemica, dell’invettiva politica, dell’attacco incondizionato e furioso contro nemici ben precisi, che a tratti vengono persino chiamati col loro nome: sarà questa la direzione prevalente dell’epigramma moderno, come vedremo in seguito. Assistiamo quindi a battaglie combattute a suon di versi, da una parte e dall’altra. Vittorio Alfieri, che di certo non si conquistò mai, né in vita né dopo, fama di uomo modesto e misurato, risponde così ai suoi detrattori:
Molti siete; i’ son uno:
ma in ogni cosa sì diversi noi,
che quando voi sarete affatto Niuno,
io sarò pur Qualcuno.
Potete or dunque, o masnadieri eroi,
rompermi sì, ma non piegar me voi.
Ma l’Alfieri è così apostrofato da Vincenzo Monti, particolarmente proclive all’attacco aggressivo:
Rabbioso cane, che molesti e mordi
gli ospiti tuoi, bandito e vagabondo,
sovvertitor che Cristo addenti, e il mondo
che non t’ascolta di latrati assordi..
Diciamo che il Monti non fu mai troppo diplomatico, e se l’Alfieri era un «novello Egisto», anche Ugo Foscolo merita di essere insultato per la sua tragedia “Aiace”:
Per porre in scena il furibondo Aiace,
il fiero Atride e l’Itaco fallace,
gran fatica Ugo Foscolo non fé:
copiò se stesso e si divise in tre.
Potrebbe mai il combattivo e fiero Foscolo issare bandiera bianca? Nossignore. Ecco cosa dice del caro Monti, dopo aver letto la sua traduzione (molto latineggiante) dell’Iliade omerica:
Questi è Monti poeta e cavaliero,
gran traduttor dei traduttor d’Omero.
Facciamo un salto in avanti e arriviamo al Novecento. Negli anni ’60 e ’70 si assiste a una nuova fioritura dell’epigramma, che assurge nuovamente a strumento di attacco e polemica tra intellettuali.
Come dice Gino Ruozzi nell’introduzione alla raccolta “Epigrammi Italiani” edita da Einaudi – da cui ho tratto i componimenti succitati, e che consiglio vivamente di leggere – nel Novecento «Fortini attacca Sereni, Bassani, Calvino; Bassani replica a Fortini e scrive contro Natalia Ginzburg; Flaiano contro Pasolini; Pasolini contro i critici cattolici; tanti contro Montale (il più graffiato tra i poeti) e contro Carlo Bo (il più graffiato tra i critici), divenuti quasi luoghi comuni su cui esercitarsi in una gara pubblica di variazioni sul tema.
Tra tutti questi scrittori e poeti che scrivono epigrammi, un posto d’onore spetta appunto a Beppe Fenoglio. I suoi epigrammi (circa 135, composti dal 1961 fino alla morte nel 1963) risultano certo aggressivi e caustici, ma non sono diretti soltanto contro singoli individui, bensì verso un’intera città: la sua Alba. Possiamo tranquillamente affermare che Fenoglio è il più grande epigono di Marziale del secolo scorso. Del poeta latino egli coglie tutta l’attualità: il campionario umano romano, di cui si è parlato in apertura, viene riabilitato dallo scrittore piemontese e adattato alla realtà albese del dopoguerra, che egli aveva sognato (proprio durante la guerra partigiana) come un’epoca di rinnovamento e liberazione, e che invece, nonostante la caduta del Fascismo, vede già inevitabilmente corroso da innumerevoli vizi e dal male peggiore di tutti, l’ipocrisia. Ma il recupero di Marziale, sempre interpretato, non si ferma qui: gli epigrammi di Fenoglio sono stracolmi di ambientazioni, professioni, situazioni e nomi tipicamente latini, mescolati però a tram, bar, automobili, stazioni ferroviarie, parroci, chiese, barbieri… il giovane cameriere del bar diventa uno schiavetto, i soldati dei legionari e così via.
L’Alba di Fenoglio è la Roma di Marziale. Si può notare qui – come dice molto acutamente Gabriele Pedullà, curatore degli Epigrammi fenogliani – un tratto peculiare dell’autore in questione: alla falsa eloquenza fascista, al mito di Roma propagandato da Mussolini e incarnato da una pedantesca e grottesca imitazione del nostro passato classico, Fenoglio oppone la scherzosità mordace e ironica di Marziale, che di Roma – lo abbiamo detto – raccontò soprattutto i vizi. Questo processo ideale ha anche un valore linguistico: se il regime utilizzava un italiano rigido e burocratico, egli scriverà ora in un italiano sì latineggiante e classicista, ma con calchi e prestiti dalla lingua di Marziale, con invenzioni, iper-latinizzazioni e arcaicizzazioni continue che renderanno ancor più comico l’effetto della poesia. Fenoglio scrive i suoi epigrammi quasi come se li stesse traducendo dal latino. La società albese diventa un teatro comico, la vita della cittadina piemontese una commedia, una storia di disfacimento: i personaggi, indicati quasi sempre con nomi latini, sono nientemeno che maschere e attori, a tratti privi di personalità, stereotipati.
Non mancano però anche sottili e ironiche repliche ai suoi detrattori. Nell’epigramma XCV, ad esempio, apostrofa così un tale Terenzio:
Parlo legato, e con concetti opachi?
Opinioni, Terenzio: quella donna
Che possedesti al prezzo di un diamante
Mi si donò, sentendomi parlare.
Ci sono punte di misoginia, proprio come in Marziale:
E la racconti a me, e peggio a Gallo,
Emulo mio in bruttezza, innamorato
Vanamente di te, da sanguinare:
“No, non conta nell’uomo la bellezza…”
Ed al bello impassibile Pisone
Bastò apparirti per averti, Lesbia.Flavia,
A coppe, a vasi, a lettere, ad occhiali,
a tutto dai di piglio come a un pene.
Si trova spazio anche per chiacchiere un poco sconce:
Come esperto di squillo torinesi
Getulio, almen da noi, non ha rivali
Tutto sa e tutto narra: le telefonate,
Gli ambienti, le bellezze, le tariffe.
Ma troviamo pure momenti più intensi e sentiti:
Se un tuo viaggio mi annunci,
Ecco sull’oceano
Un gabbiano stride
Coltello nella carne del mio cuore.
Per poi incappare nuovamente in altri epigrammi sboccati e aggressivi. Così si rivolge a un certo Claudio (Villa?), cantante all’italiana:
Claudio, perdona, ma quel tuo finale
Mi somiglia non poco alla scrollata
Che noi uomini diam, dopo pisciato.
Così invece a un tale Trasea:
Hai, dicono, la bocca come il culo,
Ma di culo sei stitico, talvolta.
Con persino una variazione sul tema:
Negherai che ti nutri per via anale,
Tu che con la bocca c…i?
Ho selezionato solo alcuni tra gli epigrammi di Beppe Fenoglio, prediligendo soprattutto – ma non solo – quelli maggiormente aggressivi e ironici (con slanci di turpiloquio) che possono far sorridere più di altri. Ma tutta la sua produzione epigrammatica è degna di nota, frutto, proprio come i suoi indimenticabili libri, di «una fatica nera», di «penosi rifacimenti», come ebbe a dire nel corso di un’intervista e come testimoniano le carte che lasciò alla sua morte. Geniale innovatore e inventore, Fenoglio è riuscito a dar nuova linfa all’epigramma, recuperando stilemi e situazioni latine, e combinando questa materia già usata in modo sempre nuovo e interessante, senza dimenticare le contingenze storiche e sociali dell’epoca in cui si trovò a vivere.
Un altro aspetto dello scrittore-partigiano che merita assolutamente di essere approfondito.