Grida il mondo, grida la terra: “Assedio animale” di Vanessa Londoño
Ho la sensazione che le cose importanti succedano soltanto quando piove, anche se a volte mi chiedo se non sia l’atto di ricordare che scatena una specie di pioggia sulla memoria, e per questo le immagini ci arrivano sempre sfocate, come se le vedessimo da un vetro appannato. Fino a qui, penso, tutto può essere successo sotto il sole, senza che sia mai caduta una goccia di pioggia; sotto un caldo inesorabile che scolorisce la tela e sgonfia le gomme lasciate all’aperto, ma in verità non saprei dire se piovesse, se sta piovendo, se le sembianze della memoria cambiano perdendo la stabilità nella corsa verso l’oblio.
Mi piacerebbe ritornare al tempo in cui non sapevo nuotare, perfino scomparire dentro la cicatrice che annuncia il mio ombelico; alloggiare in quei ricordi che vivono in assenza di pena, seppi di giornate in cui non succede niente, nulla di vagamente memorabile.
El asedio animal è il romanzo d’esordio della colombiana Vanessa Londoño, pubblicato nel 2020 e ora tradotto in italiano da Massimiliano Bonatto per Alessandro Polidoro Editore. Fa parte della collana I Selvaggi, con cui la casa editrice napoletana porta sul panorama nostrano i nomi più interessanti della narrativa latinoamericana, tra i laboratori letterari più interessanti di questo momento.
Nel caso di Assedio animale, lo scenario è quello delle comunità indigene nel cuore della Colombia; un territorio rimasto per lungo tempo al di fuori della narrativa mainstream, ai margini del mondo e della produzione letteraria, e che forse proprio per questo merita di essere raccontato.
Il testo è diviso il quattro parti, ciascuna delle quali è dedicata a un personaggio diverso. Tutti loro abitano nel villaggio immaginario di Hukuméiji, teatro di varie forme di mutilazione, elemento che accomuna le sorti dei personaggi. A un’indigena vengono tagliati gli arti inferiori per aver osato indossare degli stivali di gomma, cosa non consentita alle donne delle tribù autoctone. A una levatrice viene mozzata la lingua per essersi ribellata all’accoppiamento con il Torero, pratica a cui sono costrette tutte le ragazze del villaggio. A un padre vengono sparati pallini da caccia negli occhi per non aver ceduto ai dettami della multinazionale che ha occupato ed espropriato le sue terre, dandogli cambiali senza valore. A una ragazza vengono amputate le mani perché il padrone della macelleria in cui lavora la incolpa ingiustamente di un furto di bestiame.
Tutti i quattro racconti trasudano violenza. La violenza lacerante di queste mutilazioni, delle punizioni corporali inflitte attraverso lame e sangue, ma anche una violenza più grande, quella invisibile e pervasiva dei sistemi di potere che esercitano e alimentano le efferatezze perpetrate nel paese di Hukuméiji. Alla base dei destini dei personaggi c’è sempre un qualche tipo di sopruso; che sia coloniale o patriarcale o capitalista, che venga consumato rapidamente o trascinato nel tempo. La violenza originata dal potere non può rimanere sospesa, estemporanea. La sua profondità terribile finisce per radicarsi nella terra, per inzuppare il suolo del villaggio di sangue e di diluvio. Londoño restituisce alle pagine le grida di questa terra lontana e magica, straziata da soprusi di vario tipo, trascinandoci in un’atmosfera che è allo stesso tempo angosciosa, affascinante e selvaggia.
Oltre ai quattro personaggi a cui abbiamo accennato, in Assedio animale spicca chiaramente il protagonismo della scrittura, attraverso la prosa magistrale e preziosa dell’autrice. Con le parole, Londoño vivifica e illumina tutto. Il testo scorre fluido come pioggia seguendo un codice proprio, uno splendido lirismo pulito e sinestetico. La lingua poetica di Londoño riesce nell’ardua impresa di non piegarsi alla violenza estrema che descrive, a raccontare le efferatezze più spinte senza scivolare nella pornografia della crudeltà o nei cliché dell’estetica splatter. Sembra voler purificare la terra dal sangue, riempire gli spazi lasciati vuoti dagli arti amputati.
Prima di chiudere, è il caso di spendere qualche parola riguardo al lavoro di traduzione svolto da Bonatto. In Assedio animale, l’impronta del traduttore è evidente dalla scelta (a mio avviso estremamente valida e condivisibile) di evitare quella che tra specialisti è chiamata “domesticazione” del testo. Bonatto decide di mantenere numerose espressioni della lingua indigena della Sierra Nevada colombiana. Così ci troviamo a leggere nella traduzione parole come cayuco e finquero, invece di canoa e padrone, per non dissipare le sfumature di significato specifiche e il senso di profonda appartenenza radicati nei termini originali. È una scelta che mira a conservare le contaminazioni della parlata popolare nello spagnolo standard del testo originale, e si rivela vincente anche in italiano. Queste infiltrazioni nella splendida prosa di Londoño animano ancora di più il testo. Attraverso le contaminazioni di un linguaggio popolare, indio, spontaneo, l’autrice instaura un legame profondo tra la lingua e la terra. Grazie a questa traduzione, anche nell’edizione italiana Assedio animale conserva la sua autenticità e rimane un romanzo selvaggio, inaddomesticabile e fortemente identitario.
Tutto adorna questo delirio. Se solo tu potessi ascoltare la pioggia cadere pesante in grosse gocce estive, alternando con pazienza ogni cosa. Saresti d’accordo con me sul fatto che sembra quella che cade laggiù, che è la stessa che cade in ogni dove. Se mi lascio andare a sufficienza riesco ad ascoltare la terra smuoversi morbidamente al contatto con l’acquazzone e riciclarsi nei suoi nutrienti. Anch’io abito in lei.