I falò di Cesare Pavese e le conversazioni di Vittorini: il nostos per ritrovare se stessi
In greco, “ritorno” si dice nóstos. Álgos significa “sofferenza”. La nostalgia è dunque la sofferenza provocata dal desiderio inappagato di ritornare (Milan Kundera, L’ignoranza).
Quando nel 1950 Cesare Pavese pubblicò il suo ultimo romanzo, probabilmente come aveva fatto per tutta la sua vita, mise i suoi tormenti sulla carta con una profonda intensità. Lo racconta ad Adolfo e Eugenia Ruata in una lettera datata 17 Luglio 1949, in cui scrive di aver avuto l’idea di una «modesta Divina Commedia». Un anno dopo, quindi, sarà pubblicato questo viaggio non soltanto dantesco, bensì virgiliano nel senso di bucolico: La luna e i falò. Il titolo richiama al ciclo delle stagioni e anche ai falò propiziatori per la rigenerazione delle campagne. Un rituale d’infanzia che Anguilla, il protagonista, ricorda bene. Alla fine della vicenda questi falò saranno tutt’altro e avranno una dimensione drammatica, mentre la luna continuerà a scandire ciò che avviene con la sua luce fioca.
La vicenda del romanzo ci appare semplice: Anguilla è emigrato in America, ma quel “sogno americano” lo ha deluso e ha deciso di tornare a casa. La casa è un paese del Belbo, che noi sappiamo essere Santo Stefano Belbo, luogo natale di Cesare Pavese. Cerca un luogo che sia suo, un ritorno alle origini anche se le sue vere origini Anguilla nemmeno le conosce. Infatti, non conosce neppure il suo nome, perché Anguilla è stato abbandonato dai suoi genitori e poi affidato a una famiglia. Forse è andato in America proprio per trovare se stesso altrove, ma alla fine ha deciso di ritornare dove è cresciuto, sperando di ritrovarsi.
C’è una ragione perché sono tornato in questo paese, qui e non invece a Canelli, a Barbaresco o in Alba. Qui non ci sono nato, è quasi certo; dove son nato non lo so; non c’è da queste parti una casa né un pezzo di terra né delle ossa ch’io possa dire “Ecco cos’ero prima di nascere”. Non so se vengo dalla collina o dalla valle, dai boschi o da una casa di balconi (Cesare Pavese, La luna e i falò).
Fallita la parentesi americana, Anguilla ha una speranza: rivedere quel luogo che lo ha per anni accolto e di cui ricorda i falò, la sua prima cotta, la spensieratezza di qualcosa che, si accorgerà, purtroppo non esiste più. La «modesta Divina Commedia» si lega profondamente al luogo della campagna, alla semplicità di atmosfere rurali che però non hanno niente del locus amoenus virgiliano. Il protagonista scoprirà suo malgrado, infatti, che il luogo dell’infanzia non esiste. La guerra ha snaturato e cambiato per sempre le vite degli abitanti. Gli racconta tutto il male che questa ha procurato Nuto, ex partigiano, che sarà la sua “guida” in questo viaggio.
Altrettanto vano si rivela il tentativo del protagonista di Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini. Anche Silvestro ritorna a casa per ritrovare se stesso e anche in questo romanzo è fondamentale il tema della memoria. Ricordare chi siamo stati e i luoghi in cui abbiamo vissuto può essere un modo per scoprire la nostra identità. Così Silvestro fa del nostos la sua missione e, quando rivede il nome del suo paese al suo ingresso, lo stesso nome che fino a quel momento aveva letto solamente nelle cartoline della madre, si illude di poter trovare o ritrovare qualcosa. La madre stessa rappresenta un’idea mitica di femminilità e di mascolinità insieme, una dea fertile, una figura che trasmette inizialmente sicurezza e che poi finisce per deludere, così come tutto il mondo circostante.
Io ero, in quell’inverno, in preda ad astratti furori. Non dirò quali, non di questo mi son messo a raccontare. Ma bisogna dica che erano astratti, non eroici, non vivi; furori, in qualche modo, per il genere umano perduto (Elio Vittorini, Conversazione in Sicilia).
Silvestro decide di tornare dopo che ha ricevuto una lettera in cui gli spiega che è stata abbandonata dal marito, da suo padre. Non parte, però, in aiuto della madre: parte poiché tormentato da quegli “astratti furori”, così come li ha descritti nell’incipit del romanzo. Per risolverli, Silvestro viaggia non su una nave se non per una breve sequenza, ma attraverso la forza della parola, delle conversazioni. Il viaggio è rappresentato da questo. Di queste alcune sembrano «sacre conversazioni», come ha osservato brillantemente Italo Calvino, altre riflettono una dimensione mitica molto cara anche a Pavese, che riflette sul mito però in modo molto più consapevole, come nei Dialoghi con Leucò. Così in un’annotazione del diario:
Il mito greco insegna che si combatte sempre contro una parte di sé, quella che si è superata, Zeus contro Tifone, Apollo contro il Pitone. Inversamente, ciò contro cui si combatte è sempre una parte di sé, un antico se stesso. Si combatte soprattutto per non essere qualcosa, per liberarsi. Chi non ha grandi ripugnanze, non combatte (Cesare Pavese, Il mestiere di vivere).
Sia Silvestro che Anguilla inseguono, del resto, una dimensione mitica. Il primo ricerca la madre, per poi slegarsi da lei e affrontare la triste realtà nei colloqui con altri personaggi. Anguilla invece ricorda, e vorrebbe rivedere i rituali mitici dei falò. Il mito è una chiave di analisi antropologica che ha arricchito simbolicamente i due romanzi. Si sfugge, allora, dall’idea troppo semplicistica di romanzo autobiografico con protagonista un alter ego dell’autore. Lo stesso Vittorini prende la distanza da questa definizione, quando spiega che la Sicilia potrebbe essere qualsiasi luogo:
È solo per avventura Sicilia; perché il nome Sicilia mi suona meglio del nome Persia o Venezuela (Elio Vittorini, nota conclusiva a Conversazione in Sicilia)
Pavese, come lo scrittore siciliano, ha voluto costruire un’opera maestosa i cui richiami simbolici mostrano le fragilità, le illusioni e le disillusioni di uomini che cercano di combattere nel duro campo di battaglia della vita. E entrambi i protagonisti dei romanzi combattono non contro qualcosa, bensì verso qualcosa. Combattono per riscattare attraverso la memoria di suoni, sapori e momenti ciò che sono stati per poter essere ciò che sono. Silvestro spera di riconoscere in sua madre se stesso, di recuperare la propria identità malgrado lo sfondo tremendo della guerra. Cerca, come Anguilla, qualcosa che purtroppo non troverà mai: questa ricerca delle origini e di se stessi sembra rivelarsi per entrambi, fallimentare; eppure, nonostante un risultato che delude le aspettative, quel nostos è necessario. Bisogna anelare a quel luogo, ricercarlo, provare a salvarlo, a salvarci, a vivere consapevolmente.
Il nostos si tinge di colori che dipingono un quadro di munchiana angoscia, in cui la ricerca di identità si rivela vana e senza senso di fronte alle atrocità della guerra. L’ultimo tremendo incendio è quello che toglie la vita a Santina, di cui Anguilla era innamorato da ragazzo, nulla a che vedere quindi con i meravigliosi falò dell’infanzia. Invece, l’incendio metaforico di Vittorini è costituito dalla forza prorompente della parola che si annulla in se stessa: quel “ehm” che troviamo nel romanzo, nel colloquio finale tra il protagonista e il soldato, è un incendio come quello che brucia Santina. Un semplice suono, nemmeno una parola, a differenza di tutte le conversazioni che caratterizzavano il romanzo, mostra come tutto sia distrutto di fronte all’offesa del mondo, di fronte alla guerra. La speranza sembra non esistere, resta solo il ricordo e, rimanendo in tema di nostos, la nostalgia, nel tentativo di dare un senso alla nostra esistenza.
Bisogna che gli uomini possano essere felici. Ogni cosa ha un senso solo perché gli uomini siano felici. Non è solo per questo che le cose hanno un senso? (Elio Vittorini, Uomini e no)
di Silvia Argento