Il «baule mentale» di Goliarda Sapienza e i suoi inediti
Penso che l’unico antidoto all’utopia, anche all’utopia più bella, sia solo il dubbio. Solo il dubbio ti può salvare (dal documentario Rai Storie vere, 1994).
Goliarda Sapienza nasce nel 1924 a Catania da due genitori anarco-socialisti, Maria Giudice e Peppino Sapienza, non sposati nell’Italia del fascismo. A diciassette anni è a Roma per studiare recitazione con una borsa di studio all’Accademia d’arte drammatica Silvio d’Amico. Il teatro e il cinema, però, sembrano non fare per lei, e tra gli anni Cinquanta e Sessanta sceglie la scrittura come una ‘casa senza registi’, dov’è la sola a dirsi come e cosa fare, a guidarsi. Affronta la depressione, soprattutto dopo la morte della madre (1953), e poi gli elettroshock; riesce a pubblicare quattro romanzi, due dei quali sull’esperienza carceraria a Rebibbia. Muore a Gaeta nel 1996. Postumi escono diversi suoi inediti: racconti, poesie, testi per il teatro e altri romanzi, tra cui la versione integrale dell’Arte della gioia (1998).
Da qualunque prospettiva la si interpreti, l’opera di Goliarda Sapienza appare stratificata.
Le scritture private degli autori ci permettono di conoscerli da un po’ più vicino. Ed è infatti uscito da poco Lettere e biglietti (La nave di Teseo 2021) dove si radunano, sparpagliate, le presenze della vita di Goliarda Sapienza, tra collaborazioni, amicizie e sconfitte all’interno di un mondo letterario romano legato al Pci, che faticava a includerla dopo il passato di attrice – come hanno spesso ricordato Citto Maselli, che fu il suo compagno per oltre vent’anni, e Angelo Pellegrino, curatore e custode dell’archivio e dell’opera.
Le carte di lavoro sono ciò che aggregano le vicissitudini, spiegano rapporti, intessono trame complesse, e uno sguardo da vicino e nuovo può rivelare qualcosa di inedito su quest’autrice.
Ad esempio consideriamo Lettera aperta, il suo primo romanzo edito da Garzanti nel 1967 (ora Einaudi), scritto tra il 1962 e il 1965, pubblicato in una versione ampiamente editata a partire da due dattiloscritti originari, su cui prima Goliarda Sapienza stessa e poi Enzo Siciliano operarono abbondanti tagli dopo il ’65. Un lavoro appoggiato da Livio Garzanti – come Il filo di mezzogiorno nel 1969 (ora La nave di Teseo) – e presumibilmente strutturato per concorrere al premio Strega che, quell’anno, fu vinto da Anna Maria Ortese con Poveri e semplici, edito da Vallecchi.
Tra i corrispondenti di Goliarda, in Lettere e biglietti, incontriamo un generoso Claudio Varese, critico letterario, giornalista e docente a Urbino e Firenze. Un intellettuale di spessore che la stimava, incluso tra gli Amici della domenica. Fu tra i votanti di Lettera aperta, per poco non incluso nella cinquina finale dello Strega. Lei gli scriveva il 14 luglio 1967:
Caro Varese,
come vede la sua lettera ha viaggiato molto. Ma non inutilmente. Mi ha resa felice. Le sue parole sono arrivate in un momento di sconforto. Senso di vuoto che prende sempre quando si è terminato un lavoro lungo e faticoso che ci ha assorbito completamente, o timore che questa fatica non abbia abbastanza forza in sé da vivere, parlare con voce propria per essere accolta, ascoltata da chi non mi conosce. O semplicemente il pudore che ci afferra ogni qual volta ci mostriamo agli altri? Forse tutte queste cose insieme e sicuramente cento altre.
Stupisce sempre scorgere quanti livelli (emozionali) si schiudono dentro di noi a ogni parola, gesto che la vita ci costringe a fare. In ogni caso la sua approvazione – appunto perché non mi conosce “fisicamente” – mi ha dato gioia e forza […].
Non sappiamo se questa lettera sia mai arrivata nelle mani di Varese ma, pur non avendo vinto, capiamo che Goliarda Sapienza si fa forza e resta gioiosamente in gioco, perché scrivere è la sua vita ostinata, la sua vera gioia.
Tanti nomi attraversano le sorti dei premi, per lei; nomi che iniziano a conoscerla. C’è un ambiente che forse non accoglie le sue idee, la sua sconfinata libertà, l’autobiografia come scelta.
Lettera aperta riceve, prima e dopo lo Strega, recensioni positive e negative; una tra tante, curiosa, è quella del critico teatrale Roberto Mazzucco – padre della scrittrice Melania Mazzucco –, che lo stronca sulla rivista «Tempo Presente», definendolo una «storia scritta palesemente in stato di delirio».
Secondo quanto riferisce Citto Maselli, Attilio Bertolucci svolge un ruolo fondamentale nelle vesti di editor: dà infatti l’idea di avvicinare la storia autobiografica di Goliarda bambina nella Catania fascista – prima dell’arrivo a Roma, nel ’42, per diventare attrice – al modello del Tristram Shandy di Sterne, sovrapponendolo al David Copperfield di Dickens. La biblioteca mentale entra nel romanzo, forse, perché la scrittrice vuole dimostrare anche di essere figlia delle sue letture.
La scrittrice a volte si aggrappa ad altre voci, si immerge in un universo di presenze rassicuranti, di personaggi letterari, autori e idee, ricuce la sua esistenza scegliendo le parole con cura.
La prima versione dattiloscritta del testo, al capitolo undicesimo, contiene una riflessione – poi espunta – sulla felicità e sul dolore, una digressione dove Goliarda dialoga a distanza con Tolstoj e Čechov, entrambi molto amati:
È possibile che una gioia equivale ad una pena? […] “La felicità non ha storia” diceva Tolstoj. È possibile che si debba sprecare metà della vita solo per scrostarsi questo vizio che duemila anni di cristi flagellati ci hanno messo addosso? […] Sono una presuntuosa. Solo perché non sono stata battezzata credevo di essere sfuggita alla fascinazione di quell’uomo bellissimo nel suo dolore sulla croce. […] temo – non tanto per voi, quanto per me – che questa vergogna mi chiuderà la bocca come me l’ha chiusa per tanti anni anche se protestavo la mia “libertà”. Insieme a tanti “intellettuali liberi”.
[…] Almeno questo prima di smettere lo voglio gridare: la felicità ha storia e per dirla alla Cecov: anche se noi siamo impotenti […] fra cinquanta, cento anni l’uomo riuscirà a ripiantare gli alberi, i boschi della gioia seccati dalle tue lacrime Cristo… La felicità è l’unica cosa che andrebbe descritta, insegnata, gridiamolo a tutti questi addolorati per sottomissione – come sono io del resto – ad una educazione che buttato dalla finestra rispunta dai fori del muro.
C’è Goliarda libera di esprimersi, qui, senza censure né tagli, la sua volontà di affidarsi alla coerenza, come quando scriveva al critico Luigi Baldacci, forse negli anni Settanta:
Io sono sempre la stessa: un po’ più pazza, ma anche più sicura della mia “anarchia”: cose che – è noto – sono strettamente legate insieme alla qualità (o difetto?) del ricordo costante, la fedeltà (che parola fuori moda) e il bisogno di avere amici, sempre.
Goliarda Sapienza era una persona nel mondo, che frequentava e parlava con tante persone: non restò mai isolata neanche quando scrisse il suo grande romanzo, che oggi l’ha resa famosa anche all’estero. Apparteneva al suo ambiente e lo provocava; sceglieva poi sempre sé stessa, per preservarsi dall’attacco alla sua libertà – da vera anarchica, come riferiva a Baldacci.
Goliarda si mette continuamente in discussione. È questo, in fondo, il coraggio dello scrivere.
di Alessandra Trevisan