Susanna Ralaima
pubblicato 2 giorni fa in Recensioni

“Il concorso” di Sara Mesa

“Il concorso” di Sara Mesa

L’absurde naît de cette confrontation entre l’appel humain et le silence déraisonnable du monde – Albert Camus, Le mythe de Sisyphe

I tre romanzi di Sara Mesa, portata in Italia da La Nuova Frontiera nella curata e precisa traduzione di Elisa Tramontin, sono accomunati da una sottile tensione che permea le opache normalità dei protagonisti e che mette in luce le solitudini che contraddistinguono la nostra contemporaneità.

In Un amore, la scrittrice catapulta la giovane traduttrice Nat a La Escapa, uno sperduto e isolato villaggio, spingendola ai margini di una comunità rurale già di per sé chiusa e ostile dalla quale viene simultaneamente attratta e respinta. In La famiglia invece quell’estraneità si fa per assurdo ancora più pervasiva, perché cresce all’interno di un nucleo familiare come tanti, all’apparenza unito, ma attraversato da tradimenti, rassegnazioni e sofferenze endogene. Nell’ultimo testo, Il concorso, l’alienazione, l’isolamento e l’incomunicabilità covate nei primi romanzi trovano perfetto compimento, riprendendo le atmosfere già scandagliate in Silencio administrativo (Anagrama, 2019).

Il concorso è una discesa kafkiana nel mondo totalizzante della burocrazia. La narrazione si apre con il primo giorno di Sara Villalba come «nuova leva» di un ufficio pubblico – la protagonista condivide il nome dell’autrice madrilena, che pure ha lavorato nella pubblica amministrazione.

Mesa è abile nel ricreare il senso impacciato di indecisione che ci invade quando si inizia un nuovo lavoro – peraltro il primo di sempre – e ci si inserisce in un nuovo ambiente. Sara è infatti «fresca di laurea» e si trova lì grazie alla raccomandazione di una ex professoressa amica di famiglia. Dopo giorni di totale inattività, resi con dovizia di particolari dall’autrice, Sara è finalmente ricevuta dalla funzionaria giuridica, Teresa, che le illustra in maniera fumosa la sua prossima occupazione: gestire l’OMPA – Organizzazione di Mediazione e Protezione Amministrativa.

Inizierà così un percorso fatto più che altro di frenate e rallentamenti all’interno del mondo dell’amministrazione, tra badge, procedure interminabili, regolamenti interni poco chiari, organigrammi e mansioni compartimentate, iter spersonalizzanti, farraginosi e inutili. Mesa circonda la sua protagonista di alcune figure – la stessa Teresa, Beni, il Monago, Victor l’informatico – quasi macchiettistiche, presentate sempre sotto la lente derisoria della voce narrante, con le loro fissazioni, i discorsi triti, le loro idiosincrasie. Si salva da questa rassegna giudicante il personaggio di Sabina, una giovane informatica alla quale la protagonista si lega in maniera a tratti morbosa per una sua supposta diversità che si rivelerà, come ogni cosa di questo ambiente, soltanto una finzione.

Tutte le scene del romanzo si svolgono negli uffici spersonalizzanti dell’amministrazione; di Sara non sappiamo nulla se non che ha perso il padre da piccola e che vive con la madre all’oscuro dei suoi problemi lavorativi. La sua personalità via via viene completamente assorbita dal lavoro, che arriva a coincidere con la sua esistenza.

Il mondo esterno si sfocava, scompariva, mentre lì dentro tutto si affinava, diventava più nitido e acquisiva una miriade di sfumature che io ormai ero in grado di distinguere come un’esperta.

Pensai: mi sono trasformata in una dipendente pubblica.

Le giornate della protagonista sono punteggiate da gesti ripetitivi, attese senza alcun scopo, compiti meccanici privi di senso, momenti piatti con i colleghi, protocolli da seguire pedissequamente in maniera acritica. Accanto a questa routine dilatata subentra l’impegno della preparazione del concorso che dà il titolo al libro.

Mesa è abilissima nel tracciare e costruire le distanze, che siano linguistiche – come in Un amore il linguaggio diventa forma di non-comunicazione, qui assolutizzata in formule vuote e burocratesi – sia affettive. La protagonista infatti spesso non capisce banalmente cosa i colleghi si aspettino che faccia, e non condivide le loro visioni sugli altri settori o sul mondo, le chiacchiere senza spessore, i loro orizzonti esistenziali. Ma invece di denunciare l’assurdo lo subisce. Mesa sviluppa la narrazione a partire dalle parole che dicono senza dire, da azioni che non vengono compiute, da presenze che sono assenti, come il caposezione numero due. Il programma stesso di cui si deve occupare Sara, l’altisonante OMPA, è pieno di vuoti abissali.

Si può creare un facile parallelismo tra lo spazio dell’ufficio pubblico e la sensazione di spaesamento che prova la protagonista. L’ambiente viene descritto con precisione asettica e l’autrice ci presenta un labirinto di corridoi che non portano da nessuna parte, stanze vuote inutilizzate o occupate senza una funzione comprensibile, colleghi la cui mansione resta indefinita e il cui ruolo all’interno del sonnolento apparato rimangono oscuri, terrazze interdette ai lavoratori che di fatto frequentano tutti. Ogni spazio si fa simbolo di un’istituzione che crea sempre più disorientamento anziché ordine.

L’edificio era talmente grande che ci misi un po’ a coglierne la simmetria. Non si poteva abbracciare in un’unica occhiata, servivano molte occhiate, molte prospettive per comprenderlo. A pianta circolare, compatto e solido, da fuori ricordava una torta a vari piani con strati alternati di crema e pan di Spagna e finestre come gocce di cioccolato sparpagliate a caso. Ma entrando l’effetto era conturbante, perché non sembrava più neanche lontanamente rotondo, bensì una gigantesca scatola rettangolare, labirintica, piena di corridoi, uffici, sale e antisale, atri, scale, ascensori e zone di passaggio come quella in cui avevano posizionato la mia scrivania. Che ci facevo io lì, dentro a quella torta?

L’autrice traduce questo spaesamento adottando una prosa asciutta e lineare, riducendo al minimo l’azione. La lingua è piana, i dialoghi semplici e mai troppo lunghi, anche per trasmettere il flusso dei pensieri. Questa medietà formale concorre a ricreare l’effetto di asfissia controllata che pervade tutte le pagine: come la stessa protagonista si è trascinati in un mondo in cui non succede niente, quasi non si lavora davvero, e si soffoca lentamente.

Sara Mesa riesce a tracciare una mappa – parziale, ambigua, perturbante – per orientarsi in un mondo in cui il potere e le gerarchie onnipresenti emergono nei dettagli, nelle frasi sospese, nei vuoti e nei silenzi che si ignorano per quieto vivere. Ma proprio in questo vuoto esistenziale si fa strada un forte gesto di resistenza che si concretizza nella scrittura, nel disegno e nel tentativo di leggere la realtà attraverso la poesia, passione che condivide anche l’insospettabile Beni, che tra un consiglio e l’altro su come passare il famigerato concorso le porta riviste di poesie e testi di Majakovskij, Nicolás Guillén, Huidobro e Jean Arp.

Non si tratta semplicemente di fughe dalla monotonia, sono atti di necessaria e strenua sopravvivenza. I disegni scarabocchiati, i giochi di parole, alcuni versi scritti al computer dalla protagonista durante i suoi interminabili e insensati turni sono linguaggi alternativi a quello del potere, linguaggi alternativi all’annullamento nel lavoro, linguaggi alternativi all’alienazione contemporanea. Sono gli unici linguaggi che, ci ricorda Mesa, possono dare senso alla vita.