“Il crepuscolo dei pensieri” di E.M. Cioran
Fra i pensatori più enigmatici e ammalianti del Novecento c’è sicuramente Emil Cioran, detto anche Emil Michel, che ci ha lasciato in eredità i suoi lucidi virtuosismi, tra nichilismo e religione. Difficile inquadrarlo proprio perché fuori dagli schemi.
Lo scorso settembre è arrivato Il crepuscolo dei pensieri, grazie all’editore che ha portato in Italia gran parte delle sue opere, Adelphi, nell’efficace traduzione di Cristina Fantechi. Lavoro fra quelli redatti nella lingua madre di Cioran, il rumeno, questo libro uscì nel 1940, ovvero prima dello strappo avvenuto con il trasferimento in Francia che divenne poi esilio definitivo. Da quel momento scriverà in una lingua straniera; non aveva più senso scrivere nella propria, non potendo più tornare in patria per la situazione politica della Romania, che andava deteriorandosi. Strappo non solo linguistico, bensì soprattutto emotivo: troppo nobile e ricercato il francese per non lasciare dei segni. Deciderà di vivere in terra transalpina con lo status di apolide, sentendosi però sempre legato al suo Paese.
È l’insonnia patologica che lo colpisce fin da piccolo a orientare la rotta delle riflessioni in una prospettiva esistenzialista, lontana da quella dominante di Sartre, considerata di matrice più politica. Nella lucidità costante Cioran esperisce quella che chiama “la coscienza della perdita”.
Redatto in forma aforistica, questo libro è fondante in quanto presenta i temi principali della sua produzione successiva: su tutti il senso della vita e della morte, in un eterno paradosso. L’individuo per Cioran sperimenta la propria esclusiva solitudine ed è staccandosi da tutto che capisce cosa gli manca e cosa è davvero essenziale. Invita quindi alla gratitudine. Queste fra le prime folgoranti massime che troviamo riportate:
«Tutto il segreto della vita si riduce a questo: essa non ha alcun senso, eppure ognuno di noi gliene trova uno».
«La solitudine non t’insegna che sei solo, ma il solo».
Un cammino che oggi, abituati ad avere facilmente ogni cosa, diventa sempre più complicato intraprendere. Ecco perché Cioran oltre che letto andrebbe riletto. Non ha espresso solo le inquietudini dell’essere umano, ma ha indicato la via per distinguere ciò che conta rispetto a ciò che è superfluo. Le parole del moralista originario di Rășinari, un freddo villaggio della Transilvania stretto fra i Carpazi, non vanno lette per trovare certezze o rafforzare posizioni già acquisite.
«Solo la natura ha la sua grazia», afferma in un passo, attribuendole merito e dignità con l’utilizzo di una semantica lirica che fa diretto riferimento a componenti paesaggistiche, in particolare alle distese quasi sconfinate, come il mare e il cielo.
Al di là della forma per frammenti, Il crepuscolo dei pensieri appare la ricerca di un dialogo, e quando prende il tono dell’invocazione diretta a Dio la prosa è ancora più incandescente.
Signore! Non mi resti che tu! Tu – residuo del mondo, e io di me stesso. Schiuma dei miei abbandoni, in te vorrei porre fine al mio spirito e smetterla con le vane agitazioni.
In una famosa intervista del 1973, quando di anni ne aveva sessantadue, realizzata da Christian Bussy – e riprodotta su carta a cura di Antonio Di Gennaro in Vivere contro l’evidenza (La scuola di Pitagora, 2014, trad. di M. Carloni) – Cioran ha sostenuto che la scrittura è stata un dialogo con Dio da parte di un non credente senza sentirsi miscredente. «Due solitudini che s’incontrano», dirà inoltre al giornalista francese.
Il paradosso dell’esistenza è riportato in senso metaforico nel crepuscolo del titolo e induce a fare i conti innanzitutto con noi stessi di fronte a ogni intolleranza. Pensare contro i nostri dubbi e le nostre certezze, scriverà molti anni più tardi ne La tentazione di esistere, un’opera diversa nella forma, trattandosi di una raccolta di saggi, scritta in francese, che sedici anni dopo Il crepuscolo dei pensieri, rivela in maniera più compiuta quel “pensare contro sé stessi”, quel legame vertiginoso tra dolore e conoscenza, che si era già dispiegata in Nietzsche. Mentre quest’ultimo però trova nella conoscenza la possibilità di una salvezza, Cioran fa dello scetticismo il suo fil rouge.
Se il vissuto e la formazione giovanile influenzano il destino di ogni autore, in Cioran sono una lama incandescente; non si sentirà nemmeno un filosofo, definizione da cui rifuggiva, perché mentre la filosofia è astrazione, egli stava dentro le cose, con un approccio più psicologico. «Passavo le ore a fare niente ed è meglio che cercare di riempirle», afferma nella citata intervista e lo dirà in altre occasioni. Allo stesso modo si comportava quando era studente all’università. Cioran si laurea in filosofia a Bucarest con una tesi su Bergson – il filosofo parigino degli slanci vitali, che sfidò il determinismo scientifico e propose una visione dinamica e finalistica dell’universo – per poi distaccarsene, sentendolo troppo teleologico e ottimistico. Fra i docenti c’era Nae Ionescu, appartenente di spicco del movimento mistico-filosofico vitalista detto trăirism. La fama di Ionescu è legata proprio a Emil, ragazzo passionale e pieno di ossessioni, verso cui esercita una certa influenza, alla base dell’avvicinamento di Cioran e di altri brillanti studenti rumeni, tra cui il suo amico Mircea Eliade, anch’egli voce significativa della nuova generazione rumena, alla cosiddetta Guardia di ferro, il movimento di estrema destra di orientamento mistico e di stampo antisemita fondato da Corneliu Zelea Codreanu.
Tale coinvolgimento fu visto come un conformarsi ai totalitarismi proprio da parte di chi invece avrebbe dovuto opporsi, ovvero l’élite intellettuale. Messaggero di questa critica un altro grande rumeno, il drammaturgo Eugène Ionesco, che vide nei suoi amici i sintomi della “rinocerontite”, potente metafora da lui creata, peraltro sempre attualissima, dell’epidemia che affligge chi abbandona la propria individualità per conformarsi alla massa e portata in scena al teatro Odéon di Parigi per la prima volta nel 1960 intitolata al grosso animale selvaggio: Il rinoceronte.
Tuttavia, come Ionesco ha denunciato attraverso la sua arte i pericoli dell’annullamento di sé stessi, anche quando non si è coinvolti direttamente nella barbarie, Cioran ha fatto altrettanto. Con lo spirito icastico che lo ha sempre contraddistinto prenderà le distanze da quella e da qualsivoglia ideologia e finirà con l’odiarsi tramite la disperazione. Motiva in seguito quella fase giovanile col desiderio di vedere la propria Nazione risorgere dalla marginalità in cui era relegata e vederla diventare una potenza forte e aggressiva, unico modo per uscire dalla miseria. Quel passato resterà un’ombra oscura attorno alla sua persona, ma la sua evoluzione passa da qui, ed è appunto la sua arte e la cifra stilistica a dimostrarlo. Non solo. Con l’andamento discontinuo dei frammenti, come ne Il crepuscolo dei pensieri che abbiamo detto essere stato scritto in rumeno, rinuncia alla costruzione sistematica del pensiero. Cambiamento che non è stato solo una questione di forma, appunto, ma riflette una trasformazione radicale nella percezione della realtà, la sua opposizione al sistema (benché non l’unico, ce ne saranno altri, per esempio il tedesco Adorno).
Nel volume ora in esame Cioran riflette a più riprese proprio sul rimorso, svelandolo come un lampo emotivo, «dove si avverte più dolorosamente l’irreversibilità del tempo». Se il rimorso, insieme alla melanconia, appaiono sensazioni più immediate – «Il passato ci invade con il suo carico di sofferenza» –, la tristezza e la noia, temi a lui cari, mostrano una profonda meditazione sull’esistenza. Prospettive che consentono agli uomini di guardarsi vivere. Una conoscenza che si raggiunge per sottrazione, dove la vita più che rivelarsi per quello che è, si rivela per quello che non è. Quanto alla noia si usa comunemente parlare di ammazzare il tempo – un tempo che in realtà non scorre affatto – che ci allontana dall’essenziale, prerogativa dell’esistenza: «Vivere nell’immediato associa la vita e il tempo in un’unità fluida, alla quale ci abbandoniamo con l’elementare patetismo dell’ingenuità».
Riverbero di questa impostazione è la malattia intesa non tanto in senso fisico, quanto come esperienza esistenziale che rivela l’assurdità della vita e la sua inevitabile caducità. In essa, rileva Cioran, si ha una dissociazione dal tempo. Più se ne fa esperienza più «si progredisce in una disarmonia organica». Gli esseri umani intuiscono così la portata del bene più prezioso nel momento in cui non sono felici. Anche qui si intuisce la sottrazione. Così, quando si avvicina per le persone l’atto finale della vita Cioran non può che avere una postura illuminante. Se l’esistenza è un abbandono silenzioso nel nulla, la morte non è un evento tragico, bensì un riposo eterno che dissolve il tormento della coscienza. Conseguenza diretta è l’assenza di paura alla fine dei giorni: il morire, per Cioran, diventa l’unica certezza, l’unico orizzonte stabile «in un mondo che è un Non-luogo universale» (l’avverbio di negazione è maiuscolo nel testo). Il tempo per Cioran è lo spazio in cui si annida il dolore, il luogo della “caduta nel tempo”, che dà titolo a un’altra sua opera, quando cioè si è dentro la storia senza comprenderla e altresì “caduta dal tempo”, quando invece si acquisisce consapevolezza, che non è consolazione bensì condanna.
La nascita, atto fondante che nessuno di noi ha chiesto ma ha avuto, è il fulcro della sua speculazione filosofica. Prima di nascere infatti non siamo, ma lì ritorniamo, in una circolarità scandita dal tempo, elemento cardine di tutte le sue riflessioni, presenti e future. «La nascita deriva dalla puntualità della morte» afferma ne Il crepuscolo dei pensieri. Argomento che troverà compiutezza nell’Inconveniente di essere nati, del 1973, in Italia nel 1991, considerato, e forse non a caso, dall’autore la sua opera più significativa e amata tra tutte quelle prodotte e scritto anche questo in forma aforistica.
Infine, altre due osservazioni riguardano l’amore e la musica. Esse non cancellano la solitudine, però aiutano a sopportarne il peso, «L’amore è un annegamento, un’immersione nell’essere e nel non-essere».
Questo non significa che non siano elementi necessari nelle nostre vite anzi, proprio Cioran ammette che senza la musica non ha senso vivere o lavorare, ma hanno una funzione compensativa, e non risolvono la condizione tragica di essere umani. «La musica è tempo sonoro».
Scrivere per lui ha rappresentato senza dubbio un’ancora di salvezza; una necessità per aggrapparsi alla vita e poter affrontare indenne o meglio, attraversare con coraggio l’oscurità, come nelle sue lunghe passeggiate buie e insonni, dove avrà scorto la degradazione e al contempo l’umanità più genuina. Oscurità che tuttavia diventa luce, angoscia che si fa incanto. Cioran non si limita a descrivere la disperazione, ma la eleva ad arte. La sua scrittura è un’esplorazione cruda dell’esistenza. Nella visione fosca della vita emerge una bellezza che in qualche modo è assurda e paradossale, perché nasce dal confronto diretto con l’assenza di senso. La tragedia umana, per Cioran, non è qualcosa da evitare o da superare, ma una condizione inevitabile da contemplare. In tal senso il suo pessimismo si pone come ricerca del vero, dell’autentico, un modo per vedere la realtà senza filtri, con una sincerità che, per quanto dolorosa, ha una forza benefica.
Cioran dopo lunghe traversie muore a Parigi il 20 giugno 1995 in seguito ai tormenti del morbo di Alzheimer. Quasi un altro paradosso per una mente pensante come la sua.
Le idee devono essere vaste e ondeggianti come la melodia delle notti bianche.
di Alessandra Piras