“Il custode” di Ron Rash
Galeotto fu il telegramma e chi lo riscrisse
Nel Nord Carolina dei primi anni Cinquanta c’è una pedina sulla scacchiera della vita che si muove sempre sulla stessa casella. Mentre altri fanno le mosse decisive ed è in corso, a soli sei anni dall’ultima, una nuova guerra in Corea, il giovane e solo Blackburn, con la tesa del cappello abbassata per non mostrare il proprio volto sfigurato dalla poliomielite, resta sempre ai margini, pure osservandone il gioco.
Blackburn sceglie di diventare il custode del cimitero della sua città, convinto che «i morti non potevano fargli niente di peggio di quanto gli avevano già fatto i vivi»; un’autoreclusione, la sua, che gli permette di non incrociare più gli sguardi che lo fanno sentire diverso, le sciocche battute di chi è ‘normale’ al distributore di benzina o alla sala bibite e di convogliare le proprie energie in un’occupazione necessaria che lo renda fiero di quello che fa e partecipe di quel laborioso alveare cittadino oltre il cancello del cimitero.
«Magagnato» è la parola che la gente di campagna usa per indicare chi è danneggiato nella mente e nel corpo e le parole, si sa, sono spesso macigni che non solo schiacciano ma deformano un corpo già in avaria. Certo ci sono parole più pesanti, a volte usate senza riflettere, altre volte no. Ma «magagnato» è più delicata, anche nel suono, e chi la pronuncia ha detto la sua ‘in punta di forchetta’ e con la coscienza a posto.
Non pare peregrino ricordare che quegli stessi americani nella loro elaborata sintassi del diverso avevano visto anni prima in Roosevelt, un uomo provato dalla poliomielite che gli aveva paralizzato le gambe, una volontà di ferro che, a dispetto della menomazione, incarnava le speranze di riscatto della nazione americana dopo la Grande Depressione e, nei momenti più acuti del secondo conflitto mondiale, le sue «chiacchiere al caminetto», conversazioni radiofoniche che teneva con tono familiare e suadente, erano la voce di un padre che cercava di rassicurare i propri figli. Certo, era il presidente, ma la percezione della diversità, ieri come oggi, è spesso miope o astigmatica.
Ma è definitivo il commiato di Blackburn dal mondo di fuori mentre si occupa di quello dell’aldilà? No, la vita gli ha regalato un amico di sangue, Jacob, quello di sempre, con cui si comunica senza parole e si va a pesca di trote dove il fine non è la rete piena quanto l’esperienza condivisa. Ed è anche colui che chiede a Blackburn di prendersi cura, in sua assenza, della giovane moglie, in attesa di un figlio, perché la patria l’ha chiamato in guerra tra le ombre minacciose del Sud della Corea. Un altro Sud, dopo quello da cui proviene, dove sentirsi obbligati a essere infelici.
Agli occhi degli altri e soprattutto della famiglia di Jacob – proprietaria di una segheria e di diverse attività commerciali, oltre che di una ben ramificata rete di silenziose complicità – anche Naomi, la giovane sposa di Jacob, è un’alterità. La ragazza rappresenta per loro l’intrusa che è piombata nella comunità per prendersi il partito migliore: figlia di un agricoltore, proveniente dal Tennessee, un altro mondo per quelli della Carolina, semianalfabeta, cameriera saltuaria, per i genitori di Jacob non è all’altezza sociale del figlio, per il quale hanno pianificato un futuro diverso. Lo stesso figlio che ha abbandonato l’università e la casa per vivere con Naomi, incontrata per caso davanti a un cinema mentre, imbarazzata, guardando il cartellone dei prezzi, contava le monete per vedere se bastavano per il biglietto.
E così due solitudini si uniscono, in fuga da un mondo arido che beve bibite ghiacciate dalla veranda, nella speranza che Jacob torni a casa e riprenda a costruire una famiglia, una nuova famiglia, voltando le spalle a quella di provenienza, che ha interrotto, e tornando a coltivare quell’amicizia senza tempo di cui Blackburn sente molta nostalgia.
Intanto tra Corea e States iniziano a viaggiare telegrammi, ‘papiri di Artemidoro’, contenenti verità, dubbio e apocrifia. E sopra la testa di Blackburn e Naomi, e all’insaputa di Jacob, si forma su un rapido pendio una lunga fila di vagoni dove basta che se ne sganci uno per causare un disastro. Eppure Jacob sin da giovane si era messo in testa di salvare le cose del mondo, come il piccolo tordo caduto dal nido, l’amicizia con Blackburn il reietto, l’amore per una ragazza che è la nota stonata della sinfonia già scritta dalla sua famiglia… Ma siamo sicuri che vince chi ha in mano lo spartito? Inizia intanto la commedia degli inganni…
Il custode di Ron Rash, recentemente pubblicato da La Nuova Frontiera nella traduzione limpida e sorvegliata di Tommaso Pincio, è un romanzo dalla lingua lirica nelle descrizioni dei paesaggi, con gli Appalachi che proteggono come un grembo il paesaggio e sono anche una sorta di trappola per chi lo vive, un romanzo tagliente nei dialoghi in un vernacolo che si impone come lingua che accorcia e allunga le distanze. Sono pagine che entrano senza paura nell’heart of darkness di molte anime del Sud dell’America e nelle sue distorsioni dell’ultima fase maccartista, in un non luogo a procedere dove servirebbe più Shakespeare che Keats e dove, se le cicale spariscono con il loro canto assordante, è giunto il tempo di ascoltare rumori vitali rimasti sepolti.
E tra questi c’è la felicità, quando si configura come un meritato riscatto dalle bassezze degli uomini. Perché, se ci ostiniamo a vedere solo il buio, non diremo mai la verità del mondo.