Il discorso elettronico
In qualche modo William S. Burroughs ha vegliato su tutto il processo di mutamento nella comunicazione del secolo scorso, in qualche modo lui era presente. Discendente diretto dell’ideatore del primo calcolatore elettronico – che per tutto il Novecento ha continuato a evolversi come una bestia meccanica fino a raggiungere lo stadio attuale, quello da scrivania, palmare o tascabile -, Burroughs (nipote) ha dedicato gran parte della sua ricerca nella comunicazione proprio al rapporto tra parola e macchina. Come già Gorgia (egli vedeva, nel discorso, “un potere magico che, tuttavia, non produce solamente la guarigione dell’anima, ma anche la malattia, il traviamento”), Burroughs identificò nella parola, nel pensiero stesso, un virus inestinguibile da cui l’uomo non sarà mai in grado di scindersi, una malattia che non abbiamo mai riconosciuto come tale poiché ci è necessaria, non penseremmo mai di contrastare il suo corso – il pensiero non può dare contro a se stesso; ma soprattutto perché più che una compatta simbiosi il nostro rapporto con la parola è di metamorfosi, da che il pensiero è Dio, non siamo materia organica ma composti di parole. Da qui, dall’invenzione della macchina, della riproduzione perpetua, insorge la distopia di un mondo privo di discorsi, o meglio tracotante di discorsi preimpostati, preregistrati, ritagliati – quando ancora il concetto di editing era in fasce già Burroughs prefigurava il cut/up, ritagli per eliminare parti del discorso titubanti o di poco effetto, immaginava di come ne avrebbero fatto uso i politicanti e i servizi segreti, ne sembrava entusiasta. Prima di lui, anche Henri Michaux, altro “pessimista entusiasta” di un altro futuro fiabesco ma popolato di macchine, immaginava che la voce umana venisse svuotata, che le parole non pesassero che nella misura in cui venivano pronunciate nella loro assolutezza, ossia nella lenta emissione di un sospiro mezzo morto, che bastasse averle pronunciate una volta per poter ripescare dal loro significato con lo stesso entusiasmo piatto, nella ripetizione di un valore portante, premendo un tasto della tastiera – questo lo diceva nelle sue considerazioni dei primi vocoder, brevettati proprio negli anni della sua attività letteraria. La ripetizione, quindi, fu il primo fattore di incubo di chi immaginava il futuro nel primo Novecento, la ripetizione in scala, di massa, la prima preoccupazione nella perdita del sentimento a favore dell’efficienza, più efficienti diecimila comandi pronunciati nella geometria della perfezione che che un unico balbettio sublime e sconclusionato.
Articolo a cura di Biagio Montanarella