Il grande passo di Antonio Padovan
Nella nebbiosa e bucolica campagna veneta, Dario Cavalieri costruisce un’astronave per raggiungere la luna. Ma non si tratta solo di fantascienza: è l’evasione dalla noiosa normalità. Il grande passo (2019) di Antonio Padovan, presentato in concorso alla 37esima edizione del Torino Film Festival e disponibile su RaiPlay, è una commedia che unisce, in un’ambientazione agreste, delle maschere stereotipate a elementi fantascientifici o, per meglio dire, utopici.
Scritto da Antonio Padovan, partendo da un soggetto a quattro mani con Marco Pettenello – sceneggiatore che ha collaborato spesso con Carlo Mazzacurati: regista che ha sempre avuto a cuore le storie ambientate nella sua terra, il Veneto; e anche in film come Lontano Lontano (2019) di Gianni Di Gregorio e L’ospite (2018) –, Il grande passo è una sorta di paradosso cinematografico.
Se in Finché c’è prosecco c’è speranza (2017) Antonio Padovan ha optato per le indagini e il genere poliziesco, sempre con Giuseppe Battiston nel ruolo principale, in Il grande passo varca i confini della fantascienza. Un modo pittoresco e originale di raccontare la sua terra natia.
In un paesino del Polesine, precisamente nella fantasiosa località di Quattro Tronchi – dove gli stereotipati abitanti guardano insieme la televisione nel bar di paese – un burbero personaggio come Dario Cavalieri (Giuseppe Battiston), come anticipato [in apertura], costruisce una gigantesca astronave. Durante il decollo qualcosa va storto, il campo del vicino di casa prende fuoco e Dario viene arrestato. Ed è esattamente in questo momento della storia che entra in gioco il fratellastro, Mario Cavalieri (Stefano Fresi). Quest’ultimo vive con la madre e possiede una piccola ferramenta a Roma, ed è l’unico che può aiutare il fratello Dario a evitare il carcere e soprattutto il trattamento sanitario obbligatorio. Dopo alcune incertezze, Mario decide di partire e andare in Veneto per provare a risolvere la situazione.
Avevo bisogno di scrivere una storia un po’ ingenua. E che vedesse questa ingenuità come un valore. Però senza la presunzione di voler dire qualcosa in particolare; volevo fare una storia che potesse divertire (Antonio Padovan).
Mario e Dario hanno lo stesso padre e, oltre a una certa somiglianza fisica, questa è l’unica cosa che li accomuna. Una delle differenze sostanziali su cui ruota il lungometraggio è proprio il percorso di vita che i due hanno intrapreso nel momento in cui il padre ha deciso di abbandonarli. Uno ha preferito evadere dalla realtà e trovare degli alibi per i comportamenti egoistici del padre; l’altro, realista e con i piedi per terra, ha preso una direzione completamente diversa.
Il desiderio di evasione, insieme all’unico ricordo d’infanzia piacevole passato con il padre, ha spinto Dario a costruire un’astronave rudimentale che si alimenta – pensate un po’ – grazie alla preziosa nebbia. La presenza di questo bizzarro mezzo di trasporto interstellare interrompe l’equilibrio “provinciale” della storia e al contempo costruisce e restituisce allo spettatore qualcosa di sorprendente e inusuale: un capannone ipertecnologico in mezzo ai campi e un potenziale viaggio sulla luna.
Per quanto riguarda la sfera del reale, i personaggi sono globalmente stereotipati. Mario è un uomo di mezz’età che vive con la madre che gli prepara la valigia, il panino da portare in viaggio e lo chiama sempre – la suoneria è l’inno della Roma –, ed è felice quando riceve un frullatore con i punti accumulati al supermercato; Dario sembra incarnare il tradizionale contadino burbero e solitario che dice parolacce, mangia solo uova sode, litiga con la “badante”, viene soprannominato “Luna storta” e non vuole saperne delle regole; gli abitanti del paesino, con le loro chiacchiere da bar, costituiscono delle maschere che hanno il sapore di cliché: soprattutto l’imprenditore dai modi “milanesi”. E senz’altro, in questo contesto, l’aspetto ironico delle vicende è sottolineato anche dai dialoghi: dal contrasto tra la cadenza romana di Mario e il dialetto veneto degli abitanti.
Dall’altra parte, ovvero sul versante fantastico, abbiamo tutto ciò che circonda filmicamente la creazione di un’astronave illegale: la coppia di agenti segreti, l’inconsueta spia/commesso del negozio di bricolage e l’attrezzatura spaziale nell’improbabile capannone.
Questi due microcosmi si fondono con fine equilibrio. La realtà e la finzione, il viaggio sulla luna e la pianura padana, l’ipertecnologica astronave e il vecchio furgone sgangherato di Dario trovano uno spazio comune in cui muoversi, senza prevalere uno sull’altro. Una storia lineare che racconta le scelte di vita di due fratelli aggiungendo una componente utopica e paradossale. È questo il punto di forza in Il grande passo, una narrazione senza presunzioni dove tutto sembra possibile.
Un lungometraggio che riesce sicuramente nell’intenzione di legare l’ironia dei dialoghi e la realtà delle ambientazioni naturali e sociali di provincia a elementi “tradizionali” di una cinematografia a stelle e strisce, fatta di visionari e di spionaggio internazionale – facendo anche riferimento a una serie di citazioni tratte da Star Wars (1977). Ed è proprio la capacità di dosare queste suggestioni, senza nessun tipo di esagerazione di genere, a funzionare. Dove le influenze della prodigiosa poetica di Carlo Mazzacurati aleggiano nella maggior parte delle scene.
Bisogna anche sottolineare che se si considerasse soltanto la retorica del Sogno si guarderebbe questo lungometraggio solo attraverso una delle chiavi di lettura possibili. Perché nella sua naturalezza e con l’abilità di Fresi e Battiston, Il grande passo racconta le difficoltà dell’abbandono di un padre, l’avvicinamento tra due fratelli, la finzione delle chiacchiere da bar, lo spostamento dalla caotica città al tranquillo paese di provincia, l’evasione da un luogo che pensi non ti appartenga – in questo caso in maniera estrema: il pianeta Terra – o banalmente, il credere nelle proprie idee. E questa carrellata di situazioni ed elementi è una sfaccettatura che Padovan traduce sullo schermo con ironia, senza voli pindarici. E la bellezza di alcune solitarie inquadrature nella campagna veneta, all’alba e al tramonto, spezza i dialoghi ironici e la sconclusionatezza della storia.