Il mare sotto la superficie:
una lettura de "Le correzioni" di Jonathan Franzen
Che Le correzioni sia un tassello imprescindibile nel mosaico della letteratura americana contemporanea è cosa pressoché universalmente riconosciuta. Si tratta del libro che nel 2001 ha consacrato Franzen come uno dei massimi scrittori americani contemporanei e che è stato acclamato dal mondo letterario e dal pubblico come un capolavoro.
La sua lettura è stata per me costellata di molte esclamazioni sparse, quasi tutte di piacere o meraviglia, a volte di sgomento. È un libro che fa quel che cerca di fare la letteratura quando è seria, qualcosa come sublimare le nostre piccole e trascurabili miserie di esseri umani per farle vibrare di un contatto inedito, tanto che a tratti sembrino quasi parte di un disegno più grande di loro (che poi questo disegno abbia un qualche senso razionale o metafisico non ha nessuna importanza).
Proviamo a fare il punto e a capire perché questo è un libro che va letto.
Non ci si può aspettare troppa indulgenza in un romanzo come questo. Mi spiego meglio: i personaggi sono quasi interamente costruiti di giustificazioni e spiegazioni più o meno mastodontiche che li aiutano a mantenere un certo grado di rispetto per sé stessi e a restare in vita; il fatto però è che tutta questa elaborata impalcatura di auto indulgenze è sempre sul punto di crollare come un castello di carte. Sono gli stessi personaggi a sapere, da qualche parte in fondo alla loro coscienza, che tutto sommato sono ben più meschini e deboli di quanto cerchino di far credere. Insomma, una coscienza è una faccenda complicata. E come potrebbe non esserlo, da Freud in poi?
Franzen decide di sondare l’interiorità martoriata delle donne e degli uomini nell’età della globalizzazione alle soglie del terzo millennio, momento evidentemente più che appropriato per un esame di coscienza collettivo da parte del glorioso, famigerato e sbandato Mondo Occidentale; mondo che si trova in uno dei punti apicali del ciclo capitalista, quando non è difficile posare lo sguardo sulle superfici splendenti dei soldi facili e sull’apparenza dorata di ciò che si vede intorno. D’altronde sono sempre questi i momenti in cui si insinuano le crepe della futura voragine, le prime avvisaglie dell’inesorabile declino (non dimentichiamo che Tom Wolfe ha pubblicato Il falò delle vanità nel 1987, al culmine della golden age reaganiana, e Don DeLillo ha ambientato il suo Cosmopolis nel 2000).
È d’obbligo una precisazione, però: Le correzioni non è un social novel, non cerca più di tanto di dipingere meccanismi sociali o economici, e si concentra invece sui personaggi: il romanzo è costruito interamente su di loro, prima ancora che sulla trama. Ma scrivendo dei personaggi, delle loro ansie e paure, dei loro desideri e soprattutto delle loro relazioni, Franzen offre lo spaccato di un’umanità che, in un certo momento storico, è alle prese con tutto ciò che da sempre la riguarda. Sono situazioni e sentimenti universali, vecchi quanto il mondo e sempre giovani per chi li vive, che tuttavia evolvono nello spazio e nel tempo: gli stessi problemi possono aprire prospettive completamente diverse a seconda della cultura e del tempo in cui si sviluppano.
Per intraprendere quell’esplorazione delle coscienze di cui dicevamo, Franzen inventa la famiglia Lambert, composta dai due anziani genitori, che vivono ancora nella loro vecchia casa di St.Jude, cittadina fittizia del Midwest, e i loro tre figli, i quali si sono ormai trasferiti all’Est per cercare di costruirsi una vita indipendente (il primo dei tre ha già una famiglia sua).
I due anziani coniugi Lambert sono sempre vissuti nella certezza che la strada da percorrere per raggiungere la felicità (che per loro fa sempre il paio con la rispettabilità) fosse una sola, e hanno cercato di trasmettere questa sicurezza ai loro tre figli, i quali però, ciascuno a proprio modo, non vogliono e non possono seguire quella strada.
Enid, la madre, è convinta che un giardino curato, biglietti natalizi eleganti e tre figli ben educati siano tutto ciò che serve per raggiungere la felicità completa in questa vita, e che tanti dispiaceri da sopportare, specialmente nella sfera coniugale, siano il sacrificio necessario per essere certi di essere persone per bene.
Alfred, suo marito, è da sempre recluso nella sua freddezza, dedito al lavoro di ingegnere e alle responsabilità.
Quando Alfred va in pensione, si ammala di Parkinson e comincia a dare segni di demenza, tutto diventa sempre più complicato. Entrambi sono inghiottiti da un caos più grande di loro, da pensieri che non sono più facilmente concatenati come un tempo, da un corpo malato che non risponde più ai comandi, da una fantomatica minaccia che potrebbe derivargli da un presunto aggiramento finanziario.
Se i genitori sono prigionieri della loro stessa smania di impedire che quell’ordine che hanno faticosamente costruito si spezzi, i figli, dal canto loro, si impegnano a operare delle “correzioni” al modello di vita che hanno ricevuto: qualcuno vuole incarnare il tipico uomo moderno e padrone di sé, con la stoffa degli affari e una famiglia perfetta, qualcun altro invece vuole emanciparsi dai modelli dominanti e costruire la propria indipendenza. Ciascuno cerca di “correggersi” con gli strumenti di cui dispone: la stabilità finanziaria, una moglie bellissima, l’educazione, la cultura accademica, blande ideologie anticonsumistiche o presunte teorie femministe.
La strada sembra luminosa e lineare, ma ecco che, non appena si inciampa in qualche ostacolo, si torna a precipitare nell’abisso di colpa e dignità offesa che riemerge dal terreno mai dissodato dell’infanzia, come un gene recessivo che, per quanto nascosto, è sempre parte del nostro genoma. In un attimo si torna ad essere quel bambino triste che non voleva mangiare, e che restava seduto per ore immobile sulla sedia di cucina di una casa i cui abitanti si sentivano sempre troppo soli per comunicare tra loro.
Tutto ciò che ci portiamo dietro come un ordine dato, che ci viene inculcato come qualcosa che dobbiamo desiderare e adoperarci per raggiungere, finisce, si sa, per alimentare le nostre nevrosi: Gary, Chip e Denise hanno ricevuto in dotazione (come la maggioranza degli esseri umani) un modello standard di come ci si deve vestire, come si deve parlare, cosa di deve mangiare, come ci si deve comportare con il denaro, chi e che cosa si deve desiderare, insomma cosa è accettabile e cosa non lo è.
Uno dei temi e dei quesiti attorno ai quali si snoda il romanzo è proprio il valore della vecchia e cara (e odiata) normalità. Che cosa è normale? Che cosa è deprecabile di quello che siamo e di quello che facciamo? La colpa è in fondo un difetto congenito, ci si può sentire in colpa per il proprio benessere economico o per il proprio orientamento sessuale (non è importante quale), perché si desidera una famiglia tradizionale o perché non la si desidera, perché prendiamo psicofarmaci o perché siamo malati. La colpa può persino diventare un antidoto quotidiano al senso di inutilità, e può diventare motore delle nostre azioni.
Credo che l’emozione che più sostiene la struttura narrativa di questo romanzo sia il risentimento: Franzen è bravissimo a costruire dei personaggi che sembrano agiti da una rabbia che si mescola con eccessivo amore, un’ostilità mista a senso di colpa e di inadeguatezza, un magma ribollente che si agita al fondo di loro stessi. Non è difficile empatizzare con i personaggi delle Correzioni, i genitori, i figli e i nipoti; ciascuno di loro porta avanti una propria guerra di trincea, vive i propri conflitti interiori ed esteriori e sperimenta ogni giorno la discrepanza tra le proprie aspettative e la realtà:
[…] Il sospetto che tutto fosse relativo. Che “il reale” e “l’autentico” non fossero semplicemente condannati, ma prima di tutto immaginari. […] E se il mondo non voleva accordarsi con la sua versione della realtà, allora doveva essere per forza un mondo egoista, sgradevole e ripugnante, una colonia penale, e lui era condannato a una tremenda solitudine.
La solitudine, appunto. È questo il punto di partenza e il punto d’arrivo di ogni essere umano, ed è la condizione che più combattiamo nel corso della vita.
Ma la paura della solitudine, in fin dei conti, è sempre legata al terrore di non poter gestire da soli quello che ci capita. C’è un mondo che vediamo, con le sue regole e i suoi steccati logici, e che crediamo di poter controllare. E poi c’è tutto quello che sta sotto.
Come la nave da crociera che nel romanzo ospita Alfred e Enid solca la superficie del mare senza badare al mondo altro che vi abita sotto, così quello che crediamo di vedere nella sua totalità è solo una piccola parte del tutto: una coscienza è sempre più profonda di quanto potremo mai supporre (un po’come nella vecchia metafora dell’iceberg). Il terrore atavico che si nasconde sotto l’apparenza dell’ordine risuona come un “campanello d’allarme dell’ansia” che suona da tempo immemorabile:
Di giorno il mare era una superficie blu con onde spumeggianti, una realistica sfida nautica, e il problema diventava trascurabile. Ma di notte la mente si immergeva nel nulla cedevole – violentemente solitario – su cui viaggiava la pesante nave d’acciaio, e in ogni flutto in movimento si poteva scorgere uno sberleffo alla fissità delle coordinate, si capiva quanto un uomo sarebbe stato realmente ed eternamente perduto se fosse finito dieci metri sott’acqua.
Tutto quello che ci fa paura perché sfugge al nostro controllo allarga una crepa nella nostra sicurezza, diventa segnale della catastrofe imminente. Tutto fa testo: la malattia, il pensiero ossessivo di essere clinicamente depressi, un comportamento sessuale che si allontana dai canoni tradizionali, una moglie che mina il nostro orgoglio, il senso di fallimento che ci perseguita, una crisi economica.
E in tutto questo hanno un posto speciale la famiglia, la casa, il luogo di origine, perché sono al contempo una prigione o una zavorra ma anche un porto sicuro dove poter tornare per sfuggire alla crudeltà del mondo esterno, e rifugiarsi forse in una crudeltà più famigliare, addolcita dall’abitudine.
I toni del romanzo non sono per niente edulcorati, anzi sono volutamente caricati, quasi a saturare l’immagine dei personaggi, rendendo sulla pagina le loro emozioni e i loro pensieri con un linguaggio sensoriale, immersivo, a tratti cinematografico. I sentimenti non rimangono sulla pagina come parole vuote ma colpiscono il lettore con un’intensità specifica e un’evidenza quasi fisica:
[…] come l’autocommiserazione, o come il sangue che riempie la bocca quando viene tolto un dente – i succhi salati e ferrosi che si ingoiano e ci si concede di assaporare – il rifiuto aveva un gusto a cui si poteva fare l’abitudine.
Franzen ha dichiarato in un’intervista che la gente nei romanzi “non vuole lezioni, ma esperienze”; questa è una delle ragioni che rendono Le correzioni un libro così potente: il fatto che non mostri nessuna pretesa ideologica o o carica stigmatizzante, ma anzi ci offra dei personaggi a cui poter appiccicare le nostre paure e le nostre nevrosi. L’esame di coscienza collettivo di cui sopra è quindi prima di tutto individuale, è un rivolgere lo sguardo dentro di noi, per ricordarci una volta di più della nostra natura umana troppo umana, che rimane tale ben al di là delle varie spiegazioni e giustificazioni che costruiamo.
Piccola nota paratestuale: l’immagine di copertina dell’edizione italiana Einaudi, la stessa dell’originale, è perfetta per descrivere il mood del romanzo. Il bambino che, seduto a tavola, punta il suo sguardo ostile e impaurito su qualcuno che non vediamo sembra incarnare proprio quella condanna che ci viene affibbiata quando veniamo al mondo: la condanna inappellabile a dover fare i conti con quello che abbiamo ricevuto e che forse non volevamo, e con quello che abbiamo sempre desiderato, senza mai trovarlo.
Le correzioni è un romanzo in cui ci si butta a capofitto, e se alla fine della lettura ci si ritrova un po’angosciati, un po’commossi e un po’sollevati di essere arrivati alla fine, è perché sì, si tratta di uno di quei libri che possono dirsi capolavori.
Articolo a cura di Gloria Naldi