“Il mostro pentapodo” di Liliana Blum
I crimini sono tutti variamente gravi, ma per la pedofilia è diverso. I reati a sfondo sessuale verso i bambini sono tra i crimini che suscitano maggiore allarme sociale.
La lettura di Il mostro pentapodo di Liliana Blum, tradotto da Sara Papini, pubblicato da Cencellada edizioni, mette il lettore di fronte a un bivio: affrontare le peggiori paure e i brividi di abominio in un thriller che sfocia nell’horror, oppure voltare le spalle al testo.
Inizialmente la ripugnanza per la vicenda ti fa tenere il libro sulla scrivania per diversi giorni, chiuso, poi un certo rimorso letterario ti spinge a fare i conti con le tue paure, fra le più comuni del genere umano, rimorso assimilabile alla sensazione, più o meno vissuta da ogni bambino, di vincere l’acluofobia (la paura del buio), quella stessa paura che con passo ponderato ti fa sfidare la stanza buia con coraggio, fino a raggiungere l’interruttore della luce. Quel momento eroico è paragonabile alla stessa forza di lettura che vince sulle questioni personali.
La vicenda di Raymundo e della sua compagna Aimée nasce apparentemente come una comune storia d’amore, ma si rivela subito il gioco perverso di uomo ossessionato, affetto da un disturbo psicopatologico, e della sua fidanzata succube di una perversa architettura, che la vede coinvolta nella gestione casalinga della piccola Cinthia, la bambina rapita.
L’autrice costruisce il racconto abilmente attraverso una tecnica narrativa che alterna, con regolarità, racconti cronologici della vicenda, in terza persona, a lettere e pagine di diario, in prima persona, di Aimée che scrive a Raymundo dal carcere.
La prosa è credibile, crea tensione nel lettore perché riesce, con una carica di ritmo e scelta lessicale molto precisa, a suscitare perturbamento, ribrezzo e repulsione. Mediante l’impiego di descrizioni accurate delle sensazioni fisiche, sia del mostro sia della vittima, Liliana riesce a demolire il muro dell’immaginazione, facendo abbandonare il lettore a momenti di orrore e pericolo imminente.
Si può provare un briciolo di umanità per entrambi gli orchi della vicenda? Chi è più mostro dei due? Raymundo o la sua compagna Aimée? La follia di un amore malato provoca solo senso di disgusto, tanto da non riuscire assolutamente ad assolvere niente e nessuno. La coscienza riesce a irradiare di luce le tenebre?
Scopriamo Il mostro pentapodo in un dialogo interessante con la sua autrice Liliana Blum.
Come hai costruito questo libro?
Ho voluto mostrare il punto di vista di entrambi i personaggi, il perpetratore e la sua complice, per questo ho scelto una struttura parallela in cui potessimo vedere il predatore in modalità di caccia (dalla motivazione, alla pianificazione e fino all’esecuzione del suo piano), ma non utilizzando la prima voce narrativa, poiché pensavo risultasse molto perturbante per il lettore. Ho voluto dare invece la voce narrante ad Aimée, che per me è la vera protagonista della storia, l’unica che subisce un cambiamento e alla fine della storia ne esce come una persona diversa rispetto all’inizio della vicenda. Inoltre, essendo della generazione in cui si scrivevano ancora lettere e si teneva un diario, ho pensato di usare quella risorsa per andare a fondo nella mente e nelle motivazioni di Aimée, per capirla un po’ meglio. Non ho voluto soffermarmi troppo sulla vittima, la bambina, ciononostante ho dovuto scrivere alcune scene perché sarebbe stato impossibile parlare di pedofilia senza riferirsi al sesso tra adulti e minori. È una atrocità, un’aberrazione che non ho voluto addolcire o normalizzare in nessun modo, e per questo ho scritto poche scene, con il massimo tatto possibile, ma senza girarci intorno. Ho cercato di scrivere senza giudicare i miei personaggi; per quanto detestabili fossero, ho cercato di mettermi nei loro panni per un momento, e spingere il lettore verso le sue proprie conclusioni. Spero di esserci riuscita.
Una curiosità sul titolo: perché mostro pentapodo?
Ho letto Lolita quando ero all’università e mi è sembrato un libro sconvolgente. Mi piace prendere in prestito i titoli da parole di altri scrittori che mi abbiano colpito per qualche motivo. In un momento del romanzo di Nabokov, Humbert Humbert dice a Lolita: «Io ti amavo. Ero un mostro pentapodo, ma ti amavo. Ero ignobile e brutale e turpido e tutto quello che vuoi, mais je t’aimais, je t’aimais!». Per me, questa citazione racchiude perfettamente l’essenza del mio romanzo, ed è da lì che ho avuto il coraggio di prendere un frammento per usarlo come titolo.
È un libro sulla violenza, una casa che torna ripetutamente a essere uno spazio di terrore, quella violenza è caratterizzata da un crimine reiterato e una testimone (complice) che convive con il mostro, che a volte vede e si rende conto, altre no. Il tuo racconto osserva in profondità le paure più antiche dell’essere umano, come si elaborano profili criminali con queste caratteristiche?
Come scrittore credi di immaginare e inventare le cose più terribili, mentre la realtà le mette in atto, dimostrando che è sempre peggio di ciò che puoi immaginare. I mostri e i loro complici convivono sempre con noi. Ci sono molti esempi, come il caso di Michel Fourniret e Monique Olivier in Francia, di Fred e Rosemary West, e i mostri di Ecatepec sono stati scoperti un anno dopo l’uscita del mio romanzo. Di fatto, la cosa più inquietante è che i criminali non sono diversi da noi, considerati “normali” o “buoni”, solo che loro osano attraversare una sottile linea di confine che la gran parte della popolazione non attraversa. Basti pensare a un essere umano qualunque senza freni morali e alle conseguenze legali delle sue potenziali azioni. La mancanza di umanità, la crudeltà e la tortura le possiamo riscontrare quotidianamente: non c’è molta differenza tra chi tortura e uccide un cane e chi lo fa con un bambino o una bambina; in fondo, si tratta della certezza che si può disporre del corpo e della vita di un altro. Pensare a questo è destabilizzante, perché significa che ci sono più mostri in giro di quanti ne possiamo immaginare.
In Italia l’anno scorso è uscito al cinema un film di due registi (fratelli), Damiano e Fabio D’Innocenzo: America Latina. È una storia simile a quella di Raymundo Betancourt, hai mai pensato a una versione cinematografica del mostro pentapodo?
Mi piacerebbe molto, ma non è un progetto imminente. Credo che il Messico sia ancora un paese piuttosto conservatore e con un tasso basso di lettura, sfortunatamente questa combinazione rende meno probabile che libri come il mio arrivino sul grande schermo. C’è una maggiore libertà per quanto riguarda i temi trattati nei libri (alla fine, poche persone leggono), ma nei media di massa c’è un po’ più di cautela. Stranamente la gente non ha problemi a guardare serie sul narcotraffico, torture, sparatorie, squartamenti, stupri di donne, ecc., ma l’abuso sessuale infantile rimane un tabù, soprattutto perché la maggior parte dei casi avviene all’interno delle famiglie. Nonostante tutto, mi piacerebbe molto che ci fosse un regista coraggioso che prendesse a cuore il mio romanzo.
Raymundo è una mente ossessionata, un personaggio terribile, ma Aimée fa quasi pietà; hai mai pensato a un secondo libro che parli della redenzione dei personaggi?
È difficile pensare a un seguito del libro se sin dall’inizio lo stesso non è stato concepito come una serie di racconti. In futuro ho in mente di scrivere un libro di racconti, un testo per ogni personaggio principale dei miei romanzi, e forse mostrare in essi come vivono dopo la storia che il lettore ha conosciuto nel romanzo. Tuttavia, nel caso del mostro pentapodo ci sono indizi su cosa accadrà ai personaggi: Aimée uscirà di prigione e si dedicherà a prendersi cura della sua bambina; Cynthia e sua madre cercheranno di guarire e riprendere le loro vite; Raymundo probabilmente morirà in prigione o desidererà morire.
Grazie mille! E spero di vederti presto in Italia!
Sì, sarà un piacere!
Intervista e traduzione a cura di Agnese Lieggi