Il paese dei ciechi
vedere senza vista
H.G. Wells pubblica questo racconto, considerato un capolavoro nonché uno dei migliori del genere fantascientifico, nel 1904.
Suggerisco di affrontare il testo, eventualmente, aprendo la mente il più possibile, perché “fantascienza” è un’etichetta che mal si addice ad un contenuto universale, oltre alle barriere dei settori, in grado di toccare corde diverse e diverse anime.
Attenzione. Quando scrivo questi “articoli”, “pensieri” parto dal presupposto che ognuno di noi legge e vive uno scritto creativo a modo suo, qualunque sia il testo in questione – che sia narrativo- a prescindere dal “contenuto emotivo”. Non essendo in grado di utilizzare le parole per il loro significato autentico, con “contenuto emotivo” intendo il risultato delle sensazioni che un testo, una volta letto, provoca nel lettore. Per questa ragione non mi limito ad illustrare una trama puntinata; descrivo invece come ho percepito e concepito il testo – ed anche la fine- attraverso i miei occhi.
Dunque potrebbe chiamarsi spoiler, anticipazione che potrebbe demotivare il lettore a leggere, e in un certo senso lo è, a seconda di come lo si affronta.
Non è mia intenzione rovinare un racconto e, a chi pensa che la trama superi per importanza il contenuto, conviene non leggere queste mie righe ed incominciare subito dal racconto originale.
Ad ogni modo.
Nuñez è un esploratore sudamericano e si è appena perso.
Le voci della metropoli dichiarano ufficialmente la sua morte, data per certa, ed egli, sopravvissuto, si avventura tra pendii dimenticati e verdi pianure.
Alcuni giorni di cammino lo separano da un paesaggio nuovo.
È lì che sorge, protetta da dirupi, la città dei ciechi, respirata nel ricordo grazie alla bocca delle generazioni.
Il trionfo dei colori sugli intonachi grezzi delle abitazioni, dislocati alla rinfusa, lascia presupporre un pittore non vedente; poco dopo arriva la conferma, è proprio la terra priva di occhi di cui parlano le leggende.
Quando Nuñez incontra tre abitanti intenti a camminare, prova ad attirare la loro attenzione gridando ed ottiene allerta e sgomento, dato che non ne conoscono i vocaboli ( “Bogotà”, da dove proviene e come verrà chiamato, e “vedo”) ed ignorano i suoi discorsi sul mondo esterno.
Il loro spagnolo è antico e comprensibile a fatica.
Presentato agli altri, egli è considerato un essere particolare, oscuro e confuso, perché continua a parlare di “sguardo”, “vista” e “occhi” ad individui che non ne conoscono il significato, ed è del tutto incapace di dimostrare de facto, materialmente, a cosa serva vedere. Tutti, senza dubbi, sanciscono il delirio dell’uomo partorito dalle montagne, e, parallelamente, la necessità di introdurlo all’interno della comunità.
Egli non se la sente. Estenuato, fugge dalla valle attraverso le mura e pernotta un paio di giorni tra le montagne scoscese ed i prati fioriti. Al mattino del terzo giorno decide di accettare il compromesso, ritorna al villaggio e nega l’esistenza della parola “vedere”, tentando di adattarsi ai costumi dei ciechi.
Nuñez si invaghisce di una ragazza, Medina-Saroté, affascinata dai racconti sulla realtà oltre lo spicchio di Ande in cui sorge il caseggiato, ed una volta introdotto alle abitudini del luogo riesce a vederla, proprio allora, dagli occhi dell’anima.
Incomincia a lavorare, il tempo passa, e la storia d’amore continua, fino a quando i due desiderano il matrimonio, osteggiato dagli anziani che reputano Nuñez un completo inetto.
Essi, scettici, si riuniscono in un Consiglio.
L’atto a cui il protagonista è obbligato ad andare incontro per ottenere la mano dell’amata è la rimozione dei bulbi oculari, reputati la causa principale della sua diversità.