Giovanna Nappi
pubblicato 1 anno fa in Recensioni

“Il ponte nel deserto” di Brianna Carafa

“Il ponte nel deserto” di Brianna Carafa

È il 1978 ed Ernesto Ferrero – come ricorda Ilaria Gaspari nella prefazione al libro – si appresta a scrivere, su «tuttolibri», di Il ponte nel deserto, romanzo di Brianna Carafa, ultima opera dell’autrice. Lasciata all’incuria e alla dimenticanza dei lettori fino al 2020, quando per merito della casa editrice Cliquot quella che è stata giustamente definita la «triade» letteraria dell’autrice viene riconsegnata agli scaffali delle librerie: La vita involontaria, l’esordio che – apprezzato tra i tanti da Italo Calvino – è stato candidato allo Strega; la raccolta di racconti Gli angeli personali e infine Il ponte nel deserto, pubblicato nel 2023.

Carafa ci introduce alla storia di Roberto Berla e alla sua «sorte capricciosa e infausta»: dopo anni di onorata carriera presso l’EFIS, l’ingegnere si lascia persuadere da un frequentatore di casa sua e soprattutto di sua moglie, a prendere parte a un progetto che lo condurrà in Messico. Una decisione improvvisa, presa d’istinto, che implica lasciare la propria abitazione a Napoli, la famiglia e il lavoro: il compito di cui viene incaricato è di consegnare una missiva a una donna di cui non sa nulla (e non chiede nulla), tranne dove trovarla. L’incosciente Berla accetta e approda in terra straniera scevro da pregiudizi; qui, trovata la donna, sarà introdotto a qualcun altro, un tale Felipe Poma, uomo affabulatore e a suo modo geniale, che lo convincerà a unirsi a un progetto spettacolare e utopico, costruire un ponte nel bel mezzo del deserto. È una possibilità, quella del ponte, mai paventata fino ad allora; eppure, dall’esatto momento in cui è pronunciata dalla bocca di un perfetto sconosciuto, prende forma nella sua mente: è un sogno a cui Bobi Berla non vuole rinunciare.

«Bisogna dar vita al deserto, capisci?» Lo incitava Felipe Poma e Bobi era ormai persuaso di questa necessità.

Un ponte nel deserto è come una via verso il paradiso, è l’occasione di uscire finalmente da sé stessi, vestendo i panni di chiunque altro, di dimenticare i fantasmi che lo tormentano dall’infanzia.

La reazione non sorprende. Ogni decisione, per Berla, non deve sottostare, come per chiunque altro, alla logica o alla veridicità; le scelte non sono alla mercè di valutazioni di sorta. Non è mai successo. Fin da bambino, la sua visione della realtà non è mai stata univoca, o lineare, o socialmente accettabile: per lui esistevano due tempi e due luoghi. La prima dimensione spaziotemporale è quella condivisa con il resto del mondo: la gelida sorella Isabella, l’apprensiva madre, la pedante tata, il solitario padre, sullo sfondo villa Regina; qui, le manifestazioni del suo malessere vengono minimizzate come capricci, o mistificate con termini medici come «labilità nervosa». Ma esiste anche un’altra realtà, altrettanto vivida, cui già si assisteva allora, ed è quella della distorsione tra lui e gli altri, tale da germinare e maturare fino a diventare assolutamente vivida nell’età adulta. Se la prima è poco amichevole, pronta a mettergli sempre i bastoni tra le ruote, quando ad esempio da giovane in esercito rischierà la vita per una fisarmonica che non sa neppure suonare, o a perseguitarlo da uomo, quando in un’aula di tribunale sarà accusato di favoreggiamento e associazione a delinquere, nella seconda si minimizza ciò che per gli altri è grave, decontestualizzando le accuse e rendendole vacue: in questa dimensione Bobi può anche sorridere.

La fragilità intima della sua persona, l’incapacità di riconoscere sé stesso, le continue distrazioni e deviazioni della mente davanti alle minuzie quotidiane, sono tutti aspetti che necessitano di un’altra strada, di una realtà altra dove manifestarsi. Dalla tenera età il senso di spaesamento e scollamento dal mondo circostante sono pericolosamente forti e in grado di concretizzarsi e convergere in immagini spaventose, a tratti gotiche.

È così che si manifesta per la prima volta al bambino, già preda dei suoi stessi pensieri, la Regina Claudia: protagonista di una fantasia tipica dei piccoli, personaggio spettrale e pauroso, si trasforma ben presto nell’emblema di un’eterna favola oscura, la fata «non invitata», l’unica a essere stata esclusa da un battesimo regale; la sua presenza si tramuta in un’ombra onnipresente, uno strato di sporco che opacizza l’immagine stessa di Bobi nello specchio, impedendogli di guardarsi e vedersi per ciò che è. Solo talvolta i confini tra le due realtà si fanno più labili, e in questa dimensione liminare è possibile per lui connettersi, temporaneamente: in questi sparuti istanti gli giunge, come un’eco lontana fino alle orecchie, una sorta di rivelazione universale.

Bobi smise di difendersi e si lambiccò il cervello per capire quale torto avesse arrecato a Marisa dando le dimissioni dall’EFIS. Poi vi rinunciò. Forse tutte, o quasi, le sue azioni erano un inestricabile groviglio di torti, come del resto sarebbe stato lampante di lì a poco. C’era però in quella scena qualcosa che gli era familiare, che proveniva da molto lontano, lo lambiva come una lunga ombra dietro le spalle. Non era questione di parole, ma di un concetto implicito in tutte le parole dette, adesso e allora. Insomma il fatto che Bobi rappresentasse il disonore degli altri, dei familiari, una specie di vergognoso vessillo. Era, quello, un titolo insolito, pensò, essere il disonore.

Emerge con forza, ancora una volta quando si parla di Brianna Carafa, l’attenzione alla malattia mentale. Meno lineare rispetto al giovane Pintus, protagonista dell’opera prima dell’autrice, qui il discorso si fa sofisticato, più complesso da decifrare e comprendere. Se in La vita involontaria Pintus vuole, seppur erroneamente, dominare e piegare la realtà, nel Ponte nel deserto Berla si lascia piuttosto cullare dall’insensatezza della vita, a suo modo la asseconda e la assorbe. Il suo personaggio è incompreso, inclassificabile dagli altri se non nei panni di un pazzo, o di un inetto.

Opera forse più letteraria di tutte, non è esente da influenze celeberrime, prima fra tutte quella del Processo di Kafka, fosse solo per l’incipit dei due libri, con l’irrompere di una condanna nell’esistenza apparentemente normale dei due uomini. Ma per la ricchezza del romanzo, per la sovrapposizione di piani temporali, non sembrerà strano accostare – anche solo per un momento – il piccolo Berla allo Swann proustiano, in quei ricordi di bambino che esondano fino alla vita adulta, o l’ingegner Berla allo Stoner di Williams.

La narrazione «ferma», così come fu descritta da Calvino, quel lessico curato e sorvegliato al dettaglio, è però anche metaforica, quasi a sovrapporsi ai sensi del suo protagonista. Precisa e solenne, la scrittura è indimenticabile e fa di Il ponte nel deserto un autentico testamento, non solo per le tragiche premesse che ne accompagnarono le stampe.