“Il prete ebreo” di Mariastella Eisenberg
a tu per tu con sé stessi
La verità è che due anime abitavano allora nel mio petto: l’ebreo che è in me inquietava il cattolico che è in me, e viceversa. […] Ho avuto tutta la vita dentro di me due fratelli litigiosi, della stessa razza di Caino e Abele; di Isacco e Ismaele, rivali, vicini solo alla sepoltura del comune padre Abramo […]
Non è facile trattare un tema così delicato come quello dell’identità. Soprattutto se ad essere chiamati in causa siamo noi stessi; proprio così: noi siamo chiamati, spesso, a doverci confrontare con la nostra parte più intima, con quella “scatola chiusa” che è la nostra memoria, con tutte le sue storie, narrazioni, vicissitudini, con tutte le sue contraddizioni e le sue stonature. Parlare di identità è quindi parlare di sé stessi. In che maniera, vi chiederete. Beh, a pensarci bene, l’esperienza più vicina che possiamo utilizzare per spiegarci meglio è quella dello specchio. È incredibile come una semplice, quotidiana, banale esperienza possa nascondere in sé un oceano di riflessioni e di “inquietudini” filosoficamente rilevanti. Chi è che decide chi siamo veramente? Noi o gli altri? L’identità ontologica di un individuo è basata su elementi intrinseci o estrinseci, acquisiti per via esterna (cultura, società…) oppure fatta di “cose” che ci portiamo dietro come bagaglio incapsulato nel nostro dna? Qualunque sia la risposta che darete pensandoci un po’ su, sappiate che non riuscirete mai a scrivere la parola fine a tal questione, a meno che non vogliate “uccidere” buona parte dei neuroni che avete o, peggio ancora, finendo dritti dritti in manicomio. L’esercizio giusto da fare non è certamente quello di eludere il problema, facendo finta di non vedere o rinunciando in anticipo a qualsiasi riflessione intellettuale, ma il primo passo consiste nel porsi il problema. Non è scontato questo primo punto: non tutti hanno (oppure non vogliono?) la capacità o gli strumenti adatti per affrontare questo spinoso problema che ci angoscia da secoli. Divenuto oggetto di interrogazione filosofica, di argute ricerche nei meandri più bui e nascosti della mente, si deve arrivare alla stressante ma necessaria situazione di trovarsi ad un bivio fra alternative. Scegliere diventa quindi la cosa più difficile da fare, più di quanto lo è il porsi il problema. E non pensiate che prendere una strada sia la fine delle difficoltà; ogni strada ha dentro di sé altri sentieri che innervano la sua superficie tanto da rendere quasi impossibile capire la “logica” che risiede dentro quel labirinto in cui ci troviamo. Il cammino è quindi fatto di “pseudo-soluzioni” che prendono la forma di miraggi, di oasi di riposo alla fine di un lungo e stancante viaggio. Ma appunto sempre di visioni illusorie si tratta. Dovremmo allora concludere che è impossibile arrivare ad una soluzione definitiva? Che non ne è valsa la pena farsi un po’ di domande su se stessi? Certo che no. Ne sa qualcosa Simone, protagonista del meraviglioso libro di Mariastella Eisenberg, Il prete ebreo (Edizioni Spartaco, 2018). Ebreo di nascita, cattolico di formazione, religioso di mestiere. È così che potremmo sintetizzare la particolare situazione esistenziale che sperimenta il nostro protagonista, il quale ha orientato tutta la sua vita intorno al grande dilemma: chi sono? La sua non è stata una scelta, quanto una esigenza, una necessità data dalle circostanze della sua vita: di fronte alla verità sulle sue origini semitiche, Simone si ritrova a far luce sulla sua identità. Non sa più chi è: è un ebreo, seppur battezzato? Oppure il fatto di appartenere ora ad una comunità diversa da quella in cui è inscritto sin dalla nascita lo ha “espropriato” dalla sua vecchia e scomoda veste “primitiva” per fargliela indossare una nuova, più comoda e senza nessun peso ad essa collegato? Conviene di più essere ebrei, rivendicare le proprie origini, “macchiarsi” per sempre l’identità, oppure è bene dimenticarsi del passato per volgersi solo al futuro, forse migliore per certi versi, a quel futuro in cui è stato immesso da qualcun altro che lo ha adottato? Simone sente su di sé il peso del suo passato sconosciuto, misterioso, nebuloso, compensato, non certo definitivamente, da una vita nuova, limpida, con un futuro davanti da costruire come religioso. La via del sacerdozio, che poi si muterà in scelta di vita consacrata, sembra al protagonista come la strada più giusta per trovare un senso a quell’esistenza così frammentata che lo riguardava da vicino. L’atteggiamento inquieto viene dal non avere radici, da non sapere chi si è. La crisi del passato porta con sé crisi di identità. Senza storia non c’è vita, nel senso che senza il bagaglio del passato, delle storie, delle narrazioni che hanno segnato la nostra infanzia, non è possibile immaginare di costruire o edificare un futuro. Senza fondamenta l’edificio non ha ragion di esistere. Simone comprende che ha bisogno del suo passato, ha bisogno di comprenderlo per saperci convivere al meglio; c’è in lui da una parte un atteggiamento di ricerca, a volte affannosa, delle proprie origini, e dall’altra la consapevolezza che ha ormai una nuova vita, una nuova “identità”, datagli sì da altri, ma che lo ha segnato e inserito in un universo-altro che ora è parte integrante del proprio io. Simone si mostra così come un “homo duplex”, scisso fra la sua incessante voglia di sapere e conoscere chi è veramente, e la consapevolezza di essere ormai un “altro uomo”, una persona nuova, con un presente che si è costruito su basi totalmente differenti rispetto a quelle che avrebbero dovuto caratterizzarlo. Di fronte a questa duplicità ontologica, egli matura l’idea di “essere straniero” ovunque vada, ovunque si trovi, un apolide ebreo errante in cerca di risposte. Non ha una patria che lo ha visto nascere, che lo accoglie e lo aspetta a braccia aperte ma si ritrova solo nel bel mezzo di una storia i cui fili sono tessuti da qualcun altro che ha deciso per lui. Quello che alberga nel suo cuore è un desiderio arcaico, umile ma allo stesso tempo forte, prettamente “umano”: voler prendere in mano la propria vita, volerla condurre, vivere intensamente, fino all’ultimo respiro. Liberarsi dalle catene che lo circondano per aprirsi alla prospettiva di cercare, per poi finalmente trovare, il suo posto nel mondo; quello che era sempre stato lì ad attenderlo, ad aspettare che si liberasse dal peso delle decisioni prese da altri per poterlo così raggiungere e farlo proprio. C’è solo un segreto per far avverare tutto ciò: attendere, non avere fretta, sperare. Proprio come ha fatto il nostro Simone… peccato se ne sia accorto troppo tardi. Con un linguaggio travolgente, limpido, fluido, Mariastella Eisenberg ci ha consegnato un piccolo gioiello di narrativa, impreziosito dalla puntuale e mai banale venatura storica che costituisce lo sfondo della vicenda e che rende il racconto sempre più “vero”, “reale”. Un vero e proprio capolavoro in cui Storia e narrazione, vicende realmente accadute e creazione artistica si incontrano e si completano vicendevolmente per restituire a noi lettori un vero e proprio spaccato di vita umana, vissuta.