Il ritratto negato (2016) di Andrzej Wajda
orgoglio e resistenza di un artista
Una giornata nuvolosa, una vasta distesa d’erba verde, fiorita, e un gruppo di giovani studenti che dipingono en plein air. Con un leggero movimento di macchina l’inquadratura si sposta verso la cima di una collina dove si intravede la sagoma di un uomo con le stampelle che scruta fiero l’orizzonte lasciandosi sfiorare dal vento. Sono queste le prime immagini con cui Andrzej Wajda presenta l’artista Władysław Strzemiński nella sua ultima opera, Il ritratto negato (Powidoki, 2016).
Il regista lascia come suo ultimo ricordo, testamento, cinematografico il racconto degli ultimi quattro anni di vita dell’artista polacco Władysław Strzemiński (interpretato da Bogusław Linda), narrando quello che è stato il momento più complicato e opprimente della sua carriera artistica e accademica. È il 1948 ed è in corso il processo di sovietizzazione di Łódź (Polonia), città in cui insegna e vive il protagonista. Il taglio, letterale e metaforico, tra le idee dittatoriali e quelle dell’artista è netto e ben marcato in una delle scene iniziali del film; quando la finestra della propria dimora viene interamente coperta dall’enorme bandiera rossa di Stalin, Strzemiński afferra una stampella e lacera il tessuto per riprendere a lavorare sulle sfumature cromatiche dei propri dipinti. Una scena forte ed emblematica che riesce a racchiudere in pochi istanti il violento contrasto dell’artista verso il momento politico di quel periodo. Idealista, orgoglioso e spregiudicato, con una figlia a cui badare e una moglie apparentemente dimenticata, invisibile, l’artista palesa tutto il suo amore per l’arte e per l’elaborazione dei suoi saggi, che verranno nascosti e oppressi perché ideologicamente troppo oltre i confini delimitati dal regime. Wajda sottolinea spesso, nelle scene, i momenti di riflessione solitaria dell’artista, come a voler sempre aggiungere una sfaccettatura, un vezzo o un semplice desiderio – come quello per il caffè e le sigarette – per delinearne scrupolosamente il temperamento e la personalità. In compagnia della figlia, che si comporta più come una madre che come tale, rimane costantemente riflessivo, alienato e distaccato. Gli unici momenti in cui sembra essere felice e appagato sono quando si trova con i suoi studenti, che ascoltano estasiati le sue lezioni.
Con il passare dei giorni e dei mesi l’accanimento sovietico nei confronti del protagonista aumenta notevolmente. Il licenziamento dal suo incarico accademico, la perdita della moglie, l’espulsione dall’associazione degli artisti, le difficoltà lavorative causate dalla sua invalidità (è senza una gamba e un braccio), la distruzione della sua mostra permanente e quella temporanea dei suoi studenti, sono le principali cause del suo decadimento e della discesa verso un baratro dal quale non potrà mai più risalire – involuzione rappresentata stilisticamente dal regista attraverso le dissolvenze in nero che chiudono le sequenze, e che enfatizzano la narrazione, inserendo dei “punti a capo” che dividono in diversi capitoli l’arco narrativo, lasciando volontariamente degli spazi di riflessione. L’artista, affamato e senza lavoro, sarà costretto ad accettare lavori occasionali, prima disegnando gigantografie di Stalin e poi allestendo la vetrina di un negozio di abbigliamento. Proprio quest’ultima diventerà il teatro, o meglio il palco, della sua definitiva e letterale caduta: inerme, in pubblico e, beffardamente, in mezzo a manichini mutilati.
I dannati di Varsavia (1957), L’uomo di marmo (1976) e Danton (1983) sono solo alcuni titoli che esemplificano la coerenza e la formidabile carriera cinematografica di Andrzej Wajda. Il ritratto negato è una perfetta e memorabile chiusura del cerchio; un ritratto emotivo, complesso e ideologico riguardo la figura di un pittore, e docente, che combatte per l’arte sacrificando i propri affetti e la propria vita.