Peppe Giorgianni
pubblicato 7 anni fa in Letteratura

Il rovesciamento del giudice-penitente e la vanità della condanna

La caduta di Camus

Il rovesciamento del giudice-penitente e la vanità della condanna

La mia idea è semplice e feconda. Salire in cattedra, come molti miei contemporanei, e maledire l’umanità? Pericolosissimo. Viene sempre il giorno, o la notte, che la risata scoppia senza preavviso. La sentenza che uno pronuncia sugli altri, finisce col rimbalzargli dritto in faccia, non senza danno. E allora? dice lei … Ebbene, ecco l’alzata d’ingegno. Ho scoperto che in attesa dell’avvento dei padroni e delle loro verghe, dovevamo, come Copernico, invertire il ragionamento per trionfare. Visto che non si potevano condannare gli altri senza giudicare immediatamente se stessi, bisognava incolpare sé stessi per aver diritto di giudicare gli altri. visto che ogni giudice prima o poi finisce penitente, bisognava fa la strada in senso inverso, esercitare il mestiere di penitente per poter finire giudice. La caduta, Albert Camus

Spesso i meccanismi della mente umana procedono per negazione. Il ragionamento che qui espone Albert Camus, per mezzo dell’avvocato Clamence, protagonista de La caduta, ne è un esempio. La negazione nasce dal modo di comportarsi dei suoi contemporanei. Essi cercano la redenzione nella più farisea delle scappatoie: la condanna.
Il pensiero immediato, il più infantile e naturale, di fronte alle storture cui si assiste è la condanna senza sé e senza ma dell’azione. Questa condanna, a conti fatti, è un’esclusione delle proprie responsabilità, innanzitutto, e secondariamente è una redenzione auto-concessa. Il gioco logico è semplicissimo: levo a gran voce la mia disapprovazione verso un’azione scorretta, faccio sì che la condanna venga ascoltata in modo tale da vestire la toga del giudice-punitore e, così, mi pongo automaticamente al di sopra delle parti per essere a mia volta ingiudicabile, in quanto “giusto”.
Il più celebre critico di tale ragionamento è senza dubbio Gesù Cristo. La pericope dell’adultera è uno dei più noti passaggi della Bibbia. La risposta che il profeta dà ai farisei e agli scribi che conducono la donna dinnanzi al Suo giudizio per condurla alla lapidazione è ormai scolpito nella storia:

Chi è senza peccato scagli la prima pietra

Il Cristo si pone in questo modo allo stesso livello della “peccatrice”, rendendo impossibile la sterile condanna. Sterile poiché, moralmente, posta in essere da eguali peccatori e, pragmaticamente, poiché non restituisce in alcun modo il maltolto.
Il primo attacco a questa facile strada di redenzione, sebbene inascoltato e banalizzato soprattutto nella scena pubblica, è dunque espressione di compassione ed empatia.
L’attacco che invece opera l’avvocato di Camus, nasce, come dicevamo in principio, dalla negazione della condanna e del ruolo di giudice-punitore. Cosa comporta la condanna?

Essa comporta un’esposizione ad eventuali rimbalzi di condanna ancor più duri e severi. Nel giudizio ferreo che si opera contro gli altri, infatti, se ne sta operando uno altrettanto severo nei confronti di sé stessi. Se condanno il prossimo, sto allo stesso tempo negandomi la possibilità di sbagliare. Come posso sconfiggere questa vulnerabilità?
La risposta di Clamence è denudare la sua natura: la vanità, l’alterigia, l’arroganza.
Riconoscendo le sue magagne e sostenendo il suo pentimento, egli si sveste della toga di giudice-punitore, detentore della Giustizia, e veste quella di giudice-penitente, legittimato a giudicare in quanto tutt’uno con le nefandezze del giudicato.

Con dialettica affilata egli spinge coloro che gli vengono incontro a fare altrettanto: mostrare i propri peccati. Si potrebbe dire che egli è mosso da un’ideale di sincerità assoluta, come se questo fosse l’ideale che pulisce ogni coscienza, ogni nefandezza. Come se il peso di ogni peccato – chiamiamolo peccato, sebbene termine in disuso, perché rende bene il suo gravare direttamente sulla coscienza – dipendesse esclusivamente dalla non ammissione di essere permeati dalla spinta a peccare per natura. Una volta ammessa la sua natura di peccatore e di menzognero, egli ottiene il diritto di giudicare.
Il ragionamento che qui sembra contraddirsi, fino a diventare paradossale nel punto in cui il devoto alla verità assoluta si accusa di falsità, raggiunge il suo apice.
È l’accettazione della duplicità, figlia di una Verità superiore, rappresentata dal vero e dal falso che si mescolano insensatamente. Se ci si pensa un po’ più a fondo è un atteggiamento largamente egotico e, al contempo, codardo.

Egotico, innanzitutto, perché è un ragionamento che pone le sue basi, il suo centro indiscusso e il suo fine esclusivamente sull’individuo che lo abbraccia. Chi ne è capace è certo della sua superiorità, della detenzione del tutto. Siede sulla sua montagna con arroganza e gode di tale senso di superiorità. Non concede nulla agli altri, non è redento, ma si redime da sé, chiudendosi in un deserto dal quale rifiuta di uscire perché ha trovato il suo posto al caldo, la comodità nel brutto.

È codardo, soprattutto, perché spinto dalla paura di essere giudicato dagli altri. Si affretta ad auto-imputarsi per arrogarsi lo scranno di giudice di sé stesso, eliminando di fatto la possibilità di ogni giudizio esterno.
È codardo perché, di fatto, esclude l’esistenza e l’effettivo valore degli altri. Il prossimo diventa un passatempo di cui godere. Ammetterlo non redime in alcun modo.
È così assuefatto dai propri sofismi logici che perde di vista la sfera dei sentimenti umani. La solidarietà non rappresenta più un sentimento elevato e una speranza di salvezza ma viene deturpata e deformata. Diventa un conforto nelle bassezze senza soluzione, una deresponsabilizzazione figlia dell’ammissione di ogni colpa. Colpa che, se come ammesso, è ancestrale, diventa anche priva di valore, in quanto inespiabile. Una resa totale che della solidarietà mantiene solo il senso di sollievo.
Se non esiste redenzione nel giudice-penitente, né tantomeno nel giudice-punitore, allora dove esiste?
Una domanda di così grave complessità impone risposte di altrettanta complessità. Forse, addirittura, impone di non cercarla affatto una risposta, ma affidarsi ancora una volta al processo della negazione e negare il frutto della prima negazione. Se dalla negazione del giudice-punitore nasce il giudice-penitente, e se entrambe falliscono nel loro scopo, risulta necessario procedere ancora una volta nella negazione.
È forse possibile approdare ad un giudice-non giudice?

Un giudice che applichi il suo giudizio nel riconoscere i propri errori e possa trarre insegnamento anche dagli errori altrui senza la necessità, né la vanità, di condannarli, che abbia la voglia di mostrare la propria via senza l’arroganza di credere che sia l’unica e la forza di non cedere a un’ideologia unificante, né alla verità comoda della sconfitta di ogni ideale. Questo giudice dovrebbe infine avere il coraggio di credere in una possibile redenzione che possa nascere anche dal dolore e non il coraggio fittizio di ritenersi liberi dalla redenzione per paura del dolore.

 

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