La riproposizione di Medea
MEDEA: «Io non voglio una vita fortunata che dia dolore, non voglio un benessere chi mi tormenti l’anima di crucci». (Euripide, 431 a.C.)
Medea è senza dubbio uno dei personaggi più noti della mitologia e risulta ancora così attuale da poter essere usata per analizzare la nostra società e il nostro concetto di «donna». La sua figura nasce in un’epoca molto remota: è nota infatti in Etruria già nel VII secolo a.C., e arriva a noi con riproposizioni recenti come la Medea di Pasolini (1969) o quella ritratta nell’altra grande pellicola di Lars Von Trier (1988).
Partiamo da Euripide. Nel 431 a.C il tragediografo greco rende Medea immortale unendo tutte le leggende che si perpetravano e le variazioni del mito e stende una tragedia in cinque episodi. Siamo a Corinto, dopo che Giasone e Medea sono fuggiti da Iolco a causa dell’uccisione del regnante Pelia. La principessa colca Medea viene a conoscenza del tradimento di Giasone che per ragioni socio-politiche si unisce alla figlia del re corinzio Creonte. Medea è qui rappresentata principalmente come una donna innamorata, intelligente e barbara. Il primo aggettivo è forse il principale nella sfera concettuale del personaggio: Medea prova un amore talmente forte nei confronti di Giasone che alla notizia del tradimento la carica eversiva si tramuta in odio, tant’è che arriva ad uccidere i figli, in quanto frutto dell’unione con Giasone (innovazione di Euripide poiché Cleofilo di Samo, Eumelo di Corinto, Pausania e Parmenisco trovano soluzioni alternative).
“Intelligente” è un’altra parola fondamentale: Medea ha la sofìa, quindi la capacità di sfruttare le proprie conoscenze a seconda del contesto. Non ha la saggezza in senso lato (detta sophrosyne) ma è astuta, capace di comprendere le dinamiche e sfruttarle, contraltare della stupida figlia di Creonte.
La terza caratteristica si sposa perfettamente col ragionamento che intendo proseguire: Medea è barbara non solo perché nata e cresciuta in uno spazio non culturalmente coerente con la percezione greca, ma anche perché donna ribelle in una società patriarcale e misogina. Il suo dolore nasce infatti da una presa di consapevolezza della propria posizione liminare in società e dal fatto che Giasone, uomo che ama, la ripudi in virtù di una condizione socio-politica ben connotata.
Medea è sola, non sfrutta la magia per difendersi se non intesa come pharmaka, funge da capro espiatorio di una società che non la contempla come cittadina e quindi trova come unica soluzione l’infanticidio, colpa più grave di cui una madre possa macchiarsi. Euripide qui non prende una posizione netta: il coro condanna la madre-monstrum ma l’autore si limita a presentarci i fatti in una prospettiva equidistante, senza giustificare Medea né dimenticare la colpa di Giasone.
Di Medea poi ne parlano tanti grandissimi autori ed è interessante notare come la prima tendenza sia quella, come nel caso di Seneca (I d.C.) e soprattutto di Corneille (XV d.C.), di mostrare Medea come un essere malvagio. Il fatto che lei sia deviante rispetto alla norma, intesa come femminilità greca e anche madre amorosa, è connotato negativamente. Corneille la presenta come una maga crudele che ha capacità soprannaturali e non ha pietà per nessuno. Scriverà infatti nell’epistola dedicatoria che ci ha fornito Medea com’è e non ci ha dato niente per rappresentarla, senza neanche tentare una giustificazione data da un sistema culturale ingiusto e soprattutto dalle responsabilità di Giasone che anzi si suicida per l’amata Creusa, figlia di Creonte, acquisendo anche uno status di “amante d’onore”.
I valori cambiano, l’umanità progredisce e si giunge finalmente a una riqualificazione della figura di Medea. Franz Grillparzer, drammaturgo austriaco della prima metà dell’Ottocento, mette in scena l’umiliazione e la sofferenza della protagonista, ormai donna svilita e senza appigli. È isolata, abbandonata da Giasone, umiliata da Creusa e Creonte che trattano i figli di lei come orfani, si sottomette alla figlia del Re facendosi insegnare a suonare la lira e a replicare una canzone che Giasone amava da piccolo, lascia ai figli la scelta di seguire lei o il padre e i bambini ormai strumentalizzati scelgono Giasone senza esitare. Medea è sconfitta, bandita, resa responsabile dell’omicidio di Pelia, esautorata dalle accuse. Qui l’infanticidio è presentato come un atto di ribellione ultima, come se Medea si lacerasse le carni solamente per avere una minima rivalsa contro un sistema che la umilia. Medea è disperata, si strappa le vesti e si vergogna per ciò che sta per fare, tant’è che si chiede come i figli possano dormire fra le sue braccia mentre ha in testa di ucciderli poche ore dopo.
La strada è segnata, le raffigurazioni moderne progressivamente fanno coincidere Medea col simbolo della donna che, né maga né mostro, ha a che fare con le ingiustizie dell’epoca coeva. Il suo appello alle donne di Corinto diviene centrale nei primi movimenti femministi, ma anche la sua lotta continua al sistema viene utilizzata per rappresentare i progressi del genere femminile a fine Ottocento, come la battaglia per il voto alle donne e il discorso intorno al mantenimento dei figli. Amy Levy e Augusta Webster, due grandi intellettuali di fine Ottocento, renderanno il personaggio simbolo delle vessazioni quotidiane che una donna subisce, degli stereotipi, dell’uomo che cerca sempre e da sempre di schiacciare il genere femminile riducendolo alla componente dell’emotività, dell’amore smisurato, della costola di Adamo.
Ciò che ha ucciso Medea, però, non è scomparso neppure nel 2024. Nonostante con il passare degli anni il nostro sistema culturale sia progredito riducendo sempre più le istanze ferine proprie dell’uomo, queste esistono ancora ed è evidente dalle orazioni dei politici, dalle discriminazioni salariali, dalle infermiere chiamate ancora “signorina”.
Medea è un simbolo della donna che cerca il riscatto e uccide il proprio prodotto, i figli, con l’arma contundente, simbolo del fallo, trasformandosi da oggetto a soggetto.