Il San Francesco di Dante
In un contributo del 1984, su San Francesco cantato da Dante, Alberto Chiari commentava:
San Francesco è ricordato, esaltato, o addirittura cantato da Dante, direttamente o indirettamente, in due opere, nel Convivio e nella Commedia, ma più volte in entrambe: tre, nel Convivio, e sette nella Commedia. E se, cominciando dalla Commedia, alcune di queste sette volte possono sembrare, di per sé, poco significative, messe tutte insieme danno testimonianza di un pensiero ricorrente; ed il pensiero ricorrente non di rado dà testimonianza del posto di rilievo che San Francesco ed il suo ideale di vita, ed il suo modo di viverlo, occupano nella mente e nel cuore di Dante.
Il confronto con la tradizione francescana, la pervasività dei suoi motivi ispiratori, rappresentano uno dei maggiori affluenti alla costruzione del tessuto ideologico della Commedia, e una delle direttrici fondamentali attraverso cui viene elaborata la prospettiva teologica e politica del poema dantesco.
La filigrana di questa influenza, benché si manifesti attraverso molteplici iridescenze, trova un momento di evocazione solenne nella terza cantica.
Alla figura di San Francesco è dedicato infatti l’undicesimo canto del Paradiso, inserito all’interno di una sezione del poema che rappresenta una delle più compatte sistemazioni della materia poetica: «la più ampia incatenatura di canti che si abbia in Paradiso», secondo Terracini; un blocco di cinque canti, dal X al XIV, dedicati al cielo del Sole, dove dimorano gli spiriti sapienti. Alla base del profilo teologico-filosofico-storico di questo cielo persiste una concezione unitaria del motivo della sapienza, espressa ed esaltata dal punto di vista retorico e formale, attraverso le forti connessioni diegetiche e discorsive da costanti richiami e parallelismi, esplicite simmetrie compositive, particolarmente accentuate tra i canti XI e XII.
Nel canto undicesimo campeggia dunque la figura di San Francesco, la cui parabola umana è posta in speculare relazione con l’altra grande testimonianza narrata, quella di San Domenico, nel canto seguente, presenze disposte in un dittico esemplare. Le biografie dei due santi fondatori attualizzano e rinviano, come ha notato Mazzucchi, «all’archetipo Cristo-Sapienza», facendo leva sul motivo cristomimetico come fattore sostanziale ed essenziale della natura della loro missione profetica e religiosa:
L’un fu tutto serafico in ardore;
l’altro per sapïenza in terra fue
di cherubica luce uno splendore.
Il riferimento alle qualità speciali dei due ordini angelici, serafico per Francesco e cherubico per Domenico, delineano il profilo di questa coppia: i due «principi» designati dalla Provvidenza con il compito di orientare nuovamente la cristianità, l’uno nella carità l’altro nella dottrina (vv.28-42). Questa è la cornice che inquadra il racconto della loro vita, caratterizzato da un’ulteriore peculiarità. Di Francesco e Domenico, si parla solo in assenza; essi non solo sono gli oggetti e non i soggetti della narrazione, ma non compaiono neppure nella scena del racconto; l’anima di Francesco sarà menzionata nell’Empireo. È qualcun altro invece che parla di loro. La regia è affidata alle voci di S. Tommaso e S. Bonaventura: il primo, domenicano, celebra le lodi del santo di Assisi, il secondo, francescano, quelle del santo di Calaruega.
Il canto XI sviluppa in un vero elogio-panegirico l’episodio della vita di San Francesco, inquadrata nell’ambito di un blocco compositivo proemiale di biasimo verso «l’insensata cura» per i beni terreni (vv.1-12), e una sezione finale di riprovazione verso il comportamento sviato del gregge domenicano (vv.118-119). La vita dantesca di Francesco si profila come un racconto condensato in uno schema allegorico-biografico espresso secondo un sistema metaforico-simbolico, articolato però su un rigido paradigma cronologico: la nascita, la conversione, l’apostolato, il tre sigilli, la morte (vv.43-117). A presiedere a questa disposizione è una studiata strategia autoriale, che vede: da un lato un confronto diretto mediato da un approccio innovativo con le fonti francescane prese a modello, su tutte la Legenda maior di Bonaventura da Bagnoregio, approvata nel 1263 dal capitolo di Pisa, e nel 1266 canonizzata come l’agiografia ufficiale del santo; dall’altro un indirizzo poetico in cui la materia umana e di cronaca è tutta assorbita e risolta in un proposito di esemplare celebrazione, volta a costruire una meditata e precisa immagine di Francesco.
Di questa costa, là dov’ella frange
più sua rattezza, nacque al mondo un sole,
come fa questo talvolta di Gange;
però chi d’esso loco fa parole,
non dica Ascesi, ché direbbe corto,
ma Orïente, se proprio dir vuole.
Il semplice dato geografico, la nascita in Assisi (1181-82), è investito da un procedimento di amplificazione di marca allegorica e di sottese vibrazioni profetiche: l’analogia Assisi-Oriente e Francesco-Sole definisce una delle reti simboliche più emblematiche della rievocazione dantesca. Dante però non indugia affatto sui riferimenti squisitamente aneddotici e leggendari, ma individua i motivi salienti ispiratori della sua originale e prorompente scelta di vita. Il motivo conduttore perciò è la rinuncia a ogni bene terreno: il paradosso di un mercante (o figlio di mercante) che diventa re perché sceglie la povertà somma. Si tratta di una scelta dirompente, un concreto atto di guerra:
che per tal donna giovinetto in guerra
del padre corse, a cui, come ala morte,
la porta del piacer nessun disserra
Lungo il canto, i termini bellici e cavallereschi si affollano. Le nozze mistiche tra Francesco e madonna Povertà assimilano i due protagonisti a una coppia di amanti, secondo un’immagine di valenza cortese:
Ma perch’io non proceda troppo chiuso,
Francesco e Povertà per questi amanti
prendi oramai nel mio parlar diffuso.
La caratterizzazione come alter Christus e sposo fedele della povertà è il paradigma del Francesco di Dante. Spiega Momigliano: «quello di Dante non è il “poverello”, ma il grande della povertà. Dante lo racconta con quel sentire eroico […]; lo fa vedere alla sola luce del sentimento che ha dominato la sua vita e ne ha fatto uno dei maggiori personaggi della cristianità».
Tale scelta si accentua nelle sequenze che descrivono gli altri tre momenti fondamentali, che corrispondono ai tre “sigilli”, ovvero la prima approvazione orale della fraternità da parte di Papa Innocento III (1210), la conferma scritta di Papa Onorio III della regola (1223), e la consacrazione suprema con il segno delle stimmate del 1224 (vv.88-108).
L’epilogo si concentra sulla solenne descrizione della morte, nell’ottobre del 1226 (vv.109-117):
Quando a colui ch’a ben sortillo
piacque di trarlo suso ala mercede
ch’el meritò nel suo farsi pusillo
a’ frati suoi, sì come giuste rede,
raccomandò la donna sua più cara,
e comandò che l’amassero a fede;
e del grembo l’anima preclara
mover si volle tornando al suo regno,
e al suo corpo non volle altra bara.
L’afflato ideale che anima e presiede all’intera celebrazione della vita di Francesco si esprime nei versi delle terzine conclusive in una alta realtà verbale e poetica. Il rigore della struttura del racconto raggiunge qui il vertice epico e lirico, e la coerenza interna del canto si riconosce soprattutto per la sua unità linguistica. Il processo di latinizzazione delle parole e di nobilitazione classicheggiante del racconto, descrivono la forza retorica della rappresentazione: Francesco, precedentemente definito «l’archimandrita», ovvero pastore, al tramonto della vita è il «pusillo», colui che incarna fino all’ultimo l’ideale di vita evangelico: ciò è icasticamente sugellato dal suono disadorno, dall’assoluta semplicità e nudità che evoca il lemma «bara», a conclusione dell’episodio.
Il Francesco di Dante appare perciò molto lontano dalle immagini oleografiche, dolciastre e rugiadose, che in molteplici occasioni ci si ostina a tramandare.
Il Francesco storico, e con esso quello assai fedele raccontato da Dante – richiamando a conclusione di nuovo le parole di Alberto Chiari – «mentre ci risveglia dentro, e ci scuote, e ci fa tremare per la nostra indegnità, ci sprona a riconquistare la dignità piena di noi stessi, per salvare noi stessi, e con noi il mondo intero, attraverso quel grido di richiamo, di rimprovero ed insieme di esortazione», che apre il canto undicesimo del Paradiso:
O insensata cura de’ mortali,
quanto son difettivi silogismi
quei che ti fanno in basso batter l’ali!
di Lorenzo De Luca
Alcuni riferimenti bibliografici:
La Divina Commedia, a cura di A. Momigliano, Firenze, Sansoni, 1945-46.
Commedia, a cura di G. Inglese, Roma, Carocci, 2016.
A. Chiari, San Francesco cantato da Dante, in «Esperienze letterarie», 9, 1984.
A. Mazzucchi, Canto xi. Per una genealogia della sapienza, in Cento canti per cento anni, Lectura Dantis Romana III Paradiso. Canti I-XVII, a cura di E. Malato, Roma, Salerno Editrice, 2015.
B. Terracini, Il canto di san Francesco, in Lettere Italiane, a. xii 1960, fasc. 1.