Culturificio
pubblicato 4 anni fa in Letteratura

Il sincretismo de “Il giuoco del Satyricon” di Edoardo Sanguineti

come approcciarsi alla lettura di un classico rivisitato

Il sincretismo de “Il giuoco del Satyricon” di Edoardo Sanguineti

Edoardo Sanguineti ricopre, nel mio immaginario, una posizione di centralità che va al di là di quella che siamo soliti attribuire agli scrittori di accreditato valore, o che in genere apprezziamo. È un giudizio di gusto questo che esprimo e forse è poco professionale abbandonarsi a questa retorica; uno studioso rende conto dei fenomeni del testo, dell’opera, della lingua e dello stile, non dell’ammirazione che nutre per l’autore. Ma esordisco con questa excusatio non petita per onestà, perché il mio giudizio sul Satyricon sanguinetiano ne è stato influenzato. Inizialmente, almeno.

Se avessi letto Il giuoco del Satyricon digiuna della conoscenza minima dell’opera del poeta genovese (e anche di quella di Carlo Emilio Gadda, per essere precisi) e senza che ne fossi rimasta piacevolmente ammirata, probabilmente non avrei capito molto del potere comunicativo insito nella marcata caratterizzazione linguistica su cui quest’opera è costruita: lo stile e la lingua di Sanguineti seguono un andamento lessicale e ritmico diverso rispetto a ciò a cui il canone ci ha abituati e chi già si è misurato con Gadda, ad esempio, o con i prosatori della neoavanguardia italiana, può capirne la portata. Per chi fosse neofita dell’argomento, e non avesse predilezioni particolari per gli sperimentalismi linguistici, questa lettura potrebbe rivelarsi ostica e, peggio, infruttuosa. Alcune premesse sono allora necessarie per rendere questa traduzione fruibile e godibile per tutti.

È curioso, forse, che ci si ponga intanto il problema dell’approccio alla lettura di un testo, il Satyricon, che già riscuote il suo consenso e conosce la sua fortuna; ma sarà bene chiarire che quella di Sanguineti, la versione a cui qui si vuole fare riferimento, non può essere considerata una traduzione, certamente non nel senso stretto del termine. Difatti, se si considera lecita la predilezione di uno stile in favore di un altro, e dunque l’adozione di una sintassi frammentaria se ci riferiamo, ad esempio, alla narrativa neoavanguardista, non è altrettanto usuale aspettarsi di riscontrare le caratteristiche tipiche degli sperimentalismi in una traduzione. Quella di Sanguineti, a pieno titolo, non si limita a essere una cosiddetta traduzione d’autore, bensì una imitazione, un’operazione mimetica profonda in cui il testo che ci viene restituito assume i connotati di un’opera nuova senza che venga tradito il testo originario:

Quella traduzione, impostata, se così posso dire, à la manière de moi-même, proiettava infatti sistematicamente, sopra quel testo meraviglioso, estremizzandole, certe soluzioni di scrittura, per nulla ortodosse, che avevo sperimentato, in particolate, nel ’63, nel mio Capriccio, e che avevo anche cercato di descrivere, a quel tempo, discorrendo di «un lessico francamente regressivo, di un sottoparlato oniroide», articolato «entro un registro deliberatamente depauperato e ristretto, in una sintassi sbalordita e deficiente». [Edoardo Sanguineti, Satyricon, Einaudi, Torino 1993, p. 201]

Quella di Sanguineti non è che una pedissequa riscrittura: il Satyricon petroniano è caratterizzato da licenze linguistiche che concernono sia l’aspetto lessicale (l’opera è disseminata di neologismi, hapax legomena, grecismi, ed è lessicalmente variegata) sia l’aspetto sintattico (molti dei personaggi del Satyricon sono poco alfabetizzati – con la significativa eccezione di Eumolpo; le sgrammaticature assumono perciò un ruolo caratterizzante ma costituiscono, anche, un’importante testimonianza linguistica della direzione che andava assumendo il latino parlato – perché è questo ciò che l’autore cerca di riprodurre – a partire dal I secolo d.C.) e Sanguineti, in ragione di questo, restituisce al Satyricon e al suo autore la medesima dignità linguistica con cui è stato concepito attraverso un’operazione di mimesi sintattica e lessicale di cui si dirà meglio nel commento al testo. Viene riportato, perciò, un brano di ampio respiro a titolo esemplificativo (la scelta è ricaduta su un unico estratto, e relativo commento, per non appesantire l’articolo).

N.d.A. Affinché l’operazione di imitazione sanguinetiana sia visibile al lettore, è necessario riportare il testo latino di Petronio ma, volendo dare per assunto che non tutti siano nelle capacità di tradurre simultaneamente dal latino all’italiano, e notare così le innovazioni introdotte da Sanguineti, è stato riportato anche il testo in traduzione italiana a cura di Vincenzo Ciaffi (curatore dell’edizione critica del Satyricon a cui Sanguineti ha attinto per la sua imitazione) come versione di servizio a uso del lettore. Per il testo latino, si riporta in conclusione di citazione il numero del capitolo, mentre per Ciaffi e Sanguineti si riporta l’indicazione bibliografica dell’edizione di riferimento.

Molestus fuit, Philerosque proclamavit: «Vivorum meminerimus. Ille habet quod sibi debebatur: honeste vixit, honeste obiit. Quid habet quod queratur? Ab asse crevit et paratus fuit quadrantem de stercore mordicus tollere. Itaque crevit, quicquid crevit, tamquam favus. Puto mehercules illum reliquisse solida centum, et omnia in nummis habuit. De re tamen ego verum dicam, qui linguam caninam comedi: durae buccae fuit, linguosus, discordia, non homo. Frater eius fortis fuit, amicus amico, manu plena, uncta mensa. Et inter initia malam parram pilavit, sed recorrexit costas illius prima vindemia; vendidit enim vinum quantum ipse voluit. Et, quod illius mentum sustulit, hereditatem accepit, ex qua plus involavit quam illi relictum est. Et ille stips, dum fratri suo irascitur, nescio cui terrae filio patrimonium elegavit. Longe fugit, quisquis suos fugit. Habuit autem oracularios servos, qui illum pessum dederunt. Numquam autem recte faciet, qui cito credit, utique homo nogotians. Tamen verum quod frunitus est, quam diu vixit… cui datum est, non cui destinatum. Plane Fortunae filius. In manu illius plumbum aurum fiebat. Facile est autem, ubi omnia quadrata currunt. Et quot putas illum annos secum tulisse? Septuaginta et supra. Sed corneolus fuit, aetatem bene ferebat, niger tamquam corvus. Noveram hominem olim oliorum, et adhuc salax erat. Non mehercules illum puto domo canem reliquisse. Immo etiam puellarius erat, omnis Minervae homo. Nec improbo, hoc solum enim secum tulit». [Petr. XLIII].

Diventava noioso, e Filerote esclamò: «Pensiamo a vivere! Lui ha quel che gli era dovuto: visse bene, morì bene. Cos’ha da lamentarsi? Si è fatto dal niente, che era pronto a raccattare coi denti un quattrino nello sterco. E così si è fatto come si è fatto, che pareva un favo. Quello, ci giurerei, ne ha lasciati tondi tondi centomila, e tutto in contanti. Ma io dirò le cose come stanno, che non ho peli sulla lingua: fu un muso duro, un brontolone, la discordia fatta persona. Suo fratello sì, era un gentiluomo, amico con l’amico, pronto a darti una mano, gran signore a tavola. E all’inizio ebbe le sue gatte da pelare, ma si rifece le ossa con la prima vendemmia, che smerciò il vino a quanto volle. E ciò che gli fece alzare la cresta fu un’eredità, da cui arraffò più di quanto gli veniva. E quel testone, arrabbiato com’era con suo fratello, legò il patrimonio a non so che figlio di nessuno. Chi pianta i suoi, pianta tutto. Che ascoltava certi schiavi come oracoli e quelli lo mandarono in malora. Che chi troppo si fida, niente combina, specie un uomo d’affari. La morale comunque è che se la spasso fin che visse… chi ebbe, non chi avrebbe dovuto avere. Proprio un figlio della Fortuna. Nelle sue mani il piombo diventava oro. Che è facile, quando tutto corre liscio. E quanti anni credi che avesse addosso? Settanta e più. Ma era un uomo di ferro, che portava bene la sua età, nero come un corvo. Io lo conoscevo dal tempo dei tempi, e andava ancora in calore. Quello, ci giurerei, nemmeno il cane di casa lasciava tranquillo. Che ci aveva anche un’inclinazione per i ragazzini, uomo a tutto fare com’era. Né io glielo rimprovero, che solo questo ha portato con sé». [Vincenzo Ciaffi, Satyricon, Einaudi, Torino 2015, pp. 51-53].

Ma era un noioso, quello, e il Filerote ci ha gridato: «Ma pensiamoci un po’ ai vivi, noi, che quello ha quello che si doveva avere, lui, che bene è vissuto, che bene ci è morto. E di che cosa si lamenta, allora? È partito su da un soldo, è venuto su dal niente, era pronto a pescarsi la monetina, con i suoi denti, dentro la merda. È così che è venuto su come è venuto, come il favo di miele. Accidenti, che credo che ne ha lasciati centomila rotondi, liquidi. Ma diciamoci la verità, un po’, che io, come si dice, me la sono mangiata, la mia lingua del cane. Era una faccia di bronzo, era una lingua di stronzo, quello. Non era un uomo, era la peste. Ma suo fratello sì, lui ci andava forte, che era un amico con gli amici, che ci aveva la mano bucata, la tavola apparecchiata. Si era pelato la sua gatta, e va bene, al principio. Ma si è aggiustato le sue ossa, lui dopo, alla sua prima vendemmia, che si è venduto il suo vino come si è voluto. Ma è un’eredità che gli è arrivata, quella che gli ha tirato su, poi, la sua faccia, che si è fregiato di più di quello che gli lasciavano, a lui. E quella testa di legno, per fargli la rabbia al fratello, ci ha lasciato tutto il suo patrimonio a un figlio di N.N., non so chi. È che chi la rompe con i suoi, le rompe tutte. Ma ci aveva degli schiavi, quello, che gli erano i suoi oracoli, e che ce l’hanno rovinato. Non gli va mica bene niente, a uno che si fida così tanto, soprattutto negli affari. Comunque, ci ha goduto tutto quello che ci ha vissuto. Perché chi ha avuto, ha avuto. E chi doveva avere, no. La Fortuna gli ha fatto da mamma, proprio, a quello, che il piombo, lì tra le sue mani, gli diventa l’oro. Ma è che è facile, però, quando tutto ci scorre liscio. E quanti anni ti credi, poi, che ci aveva addosso? Settanta e dispari. Ma era fatto tutto di ferro, che se la portava bene, l’età sua, nero come il corvo. Io me lo conoscevo dai tempi dei tempi, quell’uomo, che gli veniva ancora duro. E accidenti, che nemmeno la cagna risparmiava, lì in casa. E ci correva dietro ai ragazzini, anche, quell’uomo, che ci aveva tutte le vocazioni. Ma non ci ho mica niente da dire, io, no, che è questo, poi, tutto quello che si è portato dietro, ormai». [Edoardo Sanguineti, satyricon, Einaudi, Torino 1993, pp.47-49].

Da una prima lettura si può evincere facilmente che Sanguineti mira a rendere la sua imitazione vivace e contemporanea. Il lettore può riscontrare da sé che tra il testo di partenza e quello di arrivo intercorrono delle differenze strutturali ma che lo spirito originario del testo petroniano non è stato in alcun modo tradito, anzi: Filerote, il liberto che qui parla, si esprime principalmente per modi di dire e frasi fatte, il lessico è pittoresco e colorito e la sintassi è retta, perlopiù, da frasi principali collocate in struttura paratattica. Frequente è, poi, il ricorso alle metafore di natura popolare e alle illazioni. La resa sanguinetiana, nello spirito di un’invettiva popolareggiante, è articolata secondo una logica che rispetta, in parte, l’andamento della lingua parlata, più che della lingua scritta, dando così al lettore, a tratti, un’impressione di oralità. Lo si può evincere dall’uso, aggiuntivo rispetto al testo petroniano, degli articoli determinativi vicino ai nomi propri, o dall’uso dei deittici dove, di regola, non sarebbero necessari. Altro elemento che, solitamente, apparterrebbe alla sfera dell’oralità è l’insistenza sui pronomi relativi e dimostrativi nonché l’uso quasi esortativo delle congiunzioni coordinanti. Inoltre, Sanguineti adopera un lessico che, considerato l’interlocutore di riferimento, risulta più credibile: de stercore viene tradotto come dentro la merda; linguosus, discordia, non homo diventa era una faccia di bronzo, era una lingua di stronzo; et adhuc salax erat reso come che gli veniva ancora duro.

Quella di Sanguineti non è, tuttavia, una sovrainterpretazione; la scelta di locuzioni più triviali non è esasperata e non modifica la percezione che il lettore ha di Filerote (per questo caso specifico) tutt’altro: il ricorso alle frasi fatte, ad esempio, viene mantenuto trasformando, però, le espressioni latine in quelle che, idealmente, possono costituire un corrispettivo che sia fedele ma anche credibile in un italiano degli anni Sessanta. Si tratta, quindi, di una traduzione di natura sincretica che accoglie al suo interno l’universo petroniano proiettandolo al lettore contemporaneo attraverso una lingua viva, credibile, che si confà alla natura della narrazione originaria.

di Roberta Passaghe

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