Il tempo ritrovato: “Le piramidi di giorni” di Daina Opolskaitė
Due mondi – e io vengo dall’altro.
Cristina Campo, Diario bizantino
Pensavo interrottamente a questo verso di Cristina Campo mentre leggevo Le piramidi di giorni, il testo che tiene insieme più storie della scrittrice lituana Daina Opolskaitė, edito da Iperborea nella traduzione di Adriano Cerri. Tra le tante trame e i diversi personaggi, in questo testo la memoria fa pensare a una porta che sbatte forte per il vento dove ogni sensazione, ogni ferita, il vissuto per intero rimane impigliato alla maniglia. Non si può semplicemente lasciarsela chiusa dietro alle spalle, dimenticare, perché quello che rimane stratificato nella memoria chiama e filtra nel presente. In queste storie, chi si affaccia dallo spiraglio della memoria viene trasportato in un mondo altro, diverso dalla realtà dei fatti, che esiste e comincia da un punto preciso del passato.
Le piramidi di giorni vengono nominate per la prima volta nella sesta delle dodici storie, a metà del libro. Liucija se lo dice: inutile sperare di essere quel soffio di vento che spinge la porta della memoria e ne assicura uno spiraglio, che la farebbe scivolare via dai suoi contorni di persona, di bambina, rendendola presente ovunque. Eppure, in un certo momento lo è stata: le sue erano le sembianze di un respiro o di un volo d’ali, di un passo o un gesto distratto della donna che poi sarebbe stata sua madre. Lo sarebbe stata soltanto dopo, perché a quel tempo, o per meglio dire in quell’altro mondo, Liucija racconta ma non è ancora nata. Vede con lo sguardo di Madlena, sua – non ancora – madre, quello che non può comprendere lo sente come lo sente lei, come se fossero lo stesso corpo e in realtà lo sono, perché, dentro il ventre di Madlena, Liucija si sta trasformando in un essere proprio.
Lì la memoria, come un’arte maieutica, porta la piccola Liucija indietro nel mondo del ricordo, dove le piramidi del tempo lasciano scoperto il capo per vedere chiaramente, e Liucija nel flusso della sua memoria, che è la memoria dei volti e degli eventi della madre, coglie qualcosa che in fondo già intuiva, da sempre. Poi è venuta al mondo, il nostro mondo con le sue leggi, e la gigantesca piramide del tempo si è innalzata su di lei.
Ci sono i giorni, i mesi, le ore, tutte costruzioni del tempo che si ergono sugli istanti – le piramidi di giorni. Sono contorni precisi, scanditi della persona e del succedere del mondo così come lo conosciamo. Istanti dichiarati dal ticchettio dell’orologio che scandisce l’irreversibile, il tempo che si conta.
Penso che il tempo è un artigiano potente che crea le sue imponenti costruzioni con i secondi, i minuti e le ore. Sono delle vere e proprie piramidi di giorni che si stagliano sopra la mia testa e dalle quali non potrò mai uscire. Quando sono venuta al mondo qualcuno ha gettato le fondamenta e si è messo a costruire quegli edifici giganteschi. Accerchiata dalle loro spesse mura dovrò trascorrere tutta la vita. Quelle spesse mura mai mi permetteranno di dare un’occhiata a quell’altro mondo dove il tempo non esiste e dal quale a un certo punto sono arrivata qua.
Non tutto però rimane nell’altro mondo. Ci sono intermittenze, presentimenti che si accendono nel fondo dei pensieri, volti, luoghi che sembrano già conosciuti. Sono sbiaditi da un alone spesso, non sono facili da interpretare, eppure sono realtà: il chiedersi cosa è reale è un’altra tematica che impregna le pagine del libro, accanto al peso del tempo che grava sulle spalle. Se lo chiede Liucija fluttuando come un soffio di vento, vedendo così ciò che effettivamente è stato; se lo chiede la voce narrante in Cosa è reale dopo essere caduta nel labirinto di un tempo cristallizzato, il suo punto di ritrovo con il compagno perso all’improvviso. È forse questa la realtà per chi vive il lutto, ancora più tangibile, restare come imprigionati nei ricordi, intorpiditi dalla sensazione che dall’altra parte, nella realtà dei fatti, non sia mai esistito nulla, come se l’altro non ci sia mai stato, né fosse esistito un tempo a due.
Sono due mondi, due realtà, che vanno a coesistere perché di fatto esistono due diverse concezioni del tempo: quello che si misura, che scandisce i minuti, le ore e poi i giorni, e un tempo diverso, interiore, in cui gli istanti si compenetrano gli uni con gli altri, sottratti dal moto del loro consumarsi. Nel capitolo L’ora del crepuscolo ciò appare chiaro; anche la malattia apre a un proprio tempo, di vuoti e solitudini lunghissime. Un tempo che intimamente allora si dilata, dove ancora una volta i sentimenti si fanno più comprensibili, perché in questo nuovo spazio possono sedimentarsi e mostrarsi chiaramente. Fuori, invece, per le regole del mondo, resta la cognizione di un tempo che si accorcia. Dentro di noi, e soltanto lì, esperiamo i suoi diversi moti.
Ci sono momenti dell’esistenza per i piccoli dettagli: la luce forte di una macchia di fiori gialli, lo stupore davanti a un bambino che disegna il mondo su un vetro ghiacciato – tra i tanti immaginati da Opolskaitė. In questi momenti le piramidi di giorni cascano, si ritrova il tempo. Una bambina scopre il punto d’inizio dell’amore che l’ha generata, due ragazzi riescono a portare il loro tempo a due oltre la morte. Un padre e un figlio si capiscono per la prima volta specchiandosi in sogno l’uno nel tempo dell’altro, una donna davanti alla sua malattia accetta la finitudine del mondo, ma prima espande i suoi sentimenti. E altre storie ancora.
Il mio tempo è sempre stato differente. Non è mai stato un corso d’acqua impetuoso, da molto ormai era un cristallo di rocca: prezioso ma facile a rompersi, si schiantava in schegge sottili, faceva male perderlo.