Immoralismo e letteratura. Un’indagine sul nostro tempo
Nella prefazione al Ritratto di Dorian Gray (1890), Oscar Wilde scrive che «non esistono libri morali o immorali. I libri sono scritti bene, o scritti male. Questo è tutto». Il dandy inglese eludeva l’interrogativo etico in favore di un giudizio esclusivamente estetico sull’opera, compiendo una mossa coerente al clima culturale del tempo.
Dalla prima metà dell’Ottocento, infatti, il romanzo si era emancipato dalle norme morali: la vita, nelle sue molteplici sfaccettature, richiedeva una rappresentazione fedele anche se priva di un messaggio edificante. Saranno poi il modernismo e in parte le avanguardie ad accentuare l’idea dell’arte per l’arte: assoluta, lontana dai giudizi mondani, senza finalità. Ma il pensiero di Wilde costituiva una sostanziale novità per i tempi lunghi della Storia, dove ogni forma di rappresentazione era sempre stata accompagnata da una richiesta di eticità e di azione sul mondo.
Sin dalle sue origini, l’arte è stata spesso considerata un veicolo per l’utile e per il bene. Già nella Repubblica Platone sottolineava che il ruolo principale della poesia era divulgare i contenuti della filosofia a coloro che non potevano accedervi direttamente. La diffusione per via artistica del sapere speculativo richiedeva una forma seducente e adeguata a un pubblico non specialistico – il miscere utile dulci oraziano –, che doveva essere educato a comportamenti esemplari e arricchito da insegnamenti utili. In questo contesto chi raccontava eventi scabrosi, premiava personaggi immorali o faceva prevalere il male sul bene doveva legittimare le proprie scelte sul piano etico, anziché su quello estetico. Il dominio di questa concezione dell’arte cominciò a incrinarsi solo nel Settecento, quando Kant per primo separò in modo netto il regno dell’estetica da quello etico-morale della pratica, scindendo la nozione di buono da quella di bello.
Man mano che giudicare un’opera sulla base della sua conformità ai valori del tempo diventava un gesto di retroguardia, la letteratura si costituiva come uno spazio autonomo rispetto alla morale e alla vita. È in questo contesto che la visione di Wilde diviene non solo accettabile, ma anche rappresentativa del modo maggioritario di intendere l’atto creativo. Maggioritario ma non egemone, perché ancora nel Novecento molti intellettuali rifiutavano l’idea di una separazione netta tra arte e mondo – pensiamo agli interventisti o ai neorealisti. All’inizio del nostro secolo, comunque, nessuno avrebbe potuto definire un romanzo ‘immorale’ senza apparire un critico assai ingenuo.
Qualcosa poi è cambiato. Con l’esaurirsi del postmodernismo – assumiamo come data simbolica l’11 settembre 2001 ‒ si è assistito a un deciso ritorno degli scrittori alla realtà, accompagnato spesso da un’ansia di morale civica. Da quel momento molta letteratura midcult si interessa alla cronaca e adotta una postura impegnata, mentre altri scrittori dedicano le proprie forze a “riparare il mondo” ‒ il riferimento è a un saggio di Alexandre Gefen, Réparer le monde. La littérature française face au XXIe siècle (2017).
L’adesione ai paradigmi del presente e l’intenzione di rettificare eventi del passato, secondo la sensibilità moderna, sono la chiave del successo della Canzone di Achille (2011) e di Circe (2018) di Madeline Miller, due riscritture di testi classici dalla parte degli sconfitti. Questo genere di prodotti editoriali non solo rinuncia alla (presunta) autonomia del testo, ma fa dell’eteronomia, dell’impegno e della difesa del bene altrettanti valori da spendere sul mercato. Se quindi il compito della letteratura è suscitare o rafforzare un sentimento etico, diventa legittimo tornare a leggere i romanzi attraverso la lente del bene e, secondariamente, dell’utile.
In Italia, il riaccendersi di questa tendenza si è palesato con la stroncatura di Bruciare tutto (2017) di Walter Siti a causa del suo contenuto immorale ‒ la storia di un prete pedofilo e di un bambino che manifesta istinti sessuali. Se il contesto sembra non solo sollecitare, ma anche premiare le opere impegnate e rivolte al bene, quale posto e quale funzione occupa una narrativa immoralista?
Intanto dobbiamo definire la materia del nostro discorso. Per parlare di immoralismo in letteratura non dobbiamo sovrastimare l’importanza dell’aspetto tematico. Il male, infatti, può essere raccontato per molti fini nobili: per prenderne le distanze, come esempio da condannare o per insegnare a difendersi da esso. Agli albori del romanzo erano queste le giustificazioni a cui si appellavano gli scrittori accusati di oscenità e, a fronte di un po’ di ipocrisia, era pur vero che tali argomenti affondavano le basi nella catarsi della tragedia greca, dove la rappresentazione del male era necessaria a esperirlo collettivamente per poi distanziarsene.
Più che il cosa sembra importante il come. Attingendo a categorie retoriche, potremmo pensare che l’immoralità di un testo non stia tanto nell’inventio,quanto dalle manovre di elocutio e dispositio del materiale narrativo. L’andamento della trama, con la scelta di far trionfare il male o di mostrare l’inefficienza del bene, definisce la percezione etica che abbiamo di un testo, ma è di fondamentale importanza anche il ruolo della voce narrante, che può accompagnare il lettore, orientarne il giudizio e sottolineare la soglia tra bene e male. Quando questi elementi vengono a mancare l’immoralità si manifesta come abbandono di una guida, assenza di una bussola etica, smarrimento delle coordinate morali a cui siamo abituati. Definirei quindi la letteratura immoralistica come quella letteratura che predilige, senza averne necessità, argomenti estremi e in vario modo attinenti alla sfera del male, i quali vengono affrontati in modo perturbante perché non riducibile alle comuni norme di giudizio.
Per quanto le ideologie e le classifiche di vendita privilegino testi impegnati e rivolti al bene, la letteratura immoralista degli ultimi due decenni ha offerto ottime prove. I nomi canonici del panorama internazionale sono l’antesignano Bret Easton Ellis con il suo American Psycho (1991), Michel Houellebecq e Jonathan Littell. Ma nel campo dell’immoralismo anche la periferica Italia offre numerosi esempi. Tra i finalisti dell’ultimo Premio Strega si è distinto Le ripetizioni (2021) di Giulio Mozzi, un romanzo in cui il male più aberrante e la violenza più efferata sono normalizzate e dove non c’è alcun giudizio implicito o esplicito da parte dell’istanza che regge la narrazione. Dieci anni prima, Paolo Sortino aveva ripercorso il caso Fritzl in Elisabeth (2011), non fiction novel che segue i ventiquattro anni di prigionia di Elisabeth Fritzl, rapita dal padre nel 1984 e liberata nel 2008. Quest’opera, se confrontata con alcune simili, ci permette di capire come la scelta del tema non sia dirimente per il tono più o meno etico di un testo. Di recente molti libri hanno raccontato fatti di cronaca nera – dall’Avversario (2000) di Carrère a La città dei vivi (2020) di Lagioia –, adottando però posture assai caute. Nel descrivere la strage compiuta da Jean-Claude Romand e l’omicidio di Luca Varani, Carrère e Lagioia avevano delineato un percorso di maturazione personale e un tentativo di comprendere il male, assumendo un atteggiamento di rispetto per il dolore altrui. La particolarità di Sortino, invece, è stata quella di aver ricostruito la cronaca del rapimento dal punto di vista di Elisabeth e del padre attraverso l’adozione di un narratore onnisciente, penetrando le loro menti quando le spoglie erano ancora sanguinanti. Elisabeth, giudicato da un punto di vista etico, è un atto di vampirismo letterario ai limiti del cinismo, senza alcuna rispettosa distanza dal dolore dell’altro. Ma il maestro dei cattivisti nostrani è sicuramente Walter Siti, attratto praticamente da ogni forma di abiezione, sempre disposto ad abbracciare le ragioni del carnefice e abile a rifrangere il proprio giudizio tra i suoi alter ego finzionali. Tutta la sua poetica, da Scuola di nudo (1994) all’eloquente Contro l’impegno (2021), celebra l’abbandono alla forza del tempo e l’inutilità della resistenza: e cosa c’è di più immorale che assimilarsi a chi detiene il potere?
Gli esempi come visto non mancano, ma viene da chiedersi quale sia la funzione di questo tipo di letteratura, così disallineata dallo spirito del tempo. Secondo molti detrattori, l’immoralismo non è che una scelta mirata a creare un facile scandalo per vendere più libri. Questa spiegazione non è del tutto da respingere – sono famose le campagne mediatiche che accompagnano il lancio dei libri di Houellebecq ‒, ma, tranne pochi casi, gli scrittori immoralisti non fanno certo il boom di vendite. Mi sembra allora più interessante prendere in considerazione altre due opzioni.
Se la celebrazione del bene diviene una sorta di linea guida della narrativa contemporanea, il bene stesso perde forza e credibilità quando diviene stereotipo. Da un punto di vista estetico lo stereotipo è antirealistico, come ogni cliché; ma esso è inutile anche in senso etico perché non fa che confermare un pensiero assodato, che, divenendo luogo comune, esaurisce la propria carica e la propria natura di scelta consapevole. In quest’ottica, quindi, il male non è solo necessario a una poetica realistica, ma ha anche un effetto straniante che induce alla riflessione, assumendo così un intrinseco valore morale. Nel finale di Di chi è la colpa (2021) di Alessandro Piperno, il protagonista rincontra il suo primo amore, risalente a quarant’anni prima. La donna era emigrata giovanissima in Israele lasciandolo nel pieno dell’innamoramento, e lì si era creata una famiglia esposta ai conflitti israelo-palestinesi, tanto che uno dei suoi figli è morto in un attentato. E cosa trova di meglio da dire il protagonista se non: «Insomma, alla fine, non è stata questa grande idea»? La frase è inaspettata ma sincera e suscita più di una riflessione (o di una scomoda presa di coscienza): possiamo essere persone meschine, l’amore non esclude istinti disforici, dietro una pretesa d’amore può nascondersi un immenso narcisismo.
Infine, l’immoralismo di certa letteratura sembra rispondere a un desiderio di morte stigmatizzato dall’opinione pubblica. In realtà questo tema è affrontato in modo a tratti schizofrenico, perché mentre molti nostri comportamenti puntano dritto alla distruzione di massa, il discorso pubblico cerca di esorcizzarla. A fronte di molte filosofie della positivity, alcuni autori sembrano aver catalizzato quella nostalgia del nulla che pure ha una componente radicata nel nostro profondo e a cui, quindi, è giusto dar voce. Penso ad esempio ai romanzi di Houellebecq e al senso di annichilimento che lasciano – così il finale di Piattaforma (2001): «Il mio appartamento verrà affittato a un nuovo inquilino. Verrò dimenticato. Verrò dimenticato alla svelta». Allo stesso tempo, però, altra letteratura ha scelto di indossare l’armatura per scendere in battaglia, tanto che nel saggio La letteratura ci salverà dall’estinzione (2021) Carla Benedetti rivendica il ruolo decisivo dell’arte nella lotta ai rischi del cambiamento climatico.
Tentazione del baratro o leader nella lotta, ma in entrambi i casi un ruolo forte e specifico che la letteratura rivendica a sé stessa. Nel mezzo sta il resto, quello che mi interessa meno.