“In terra straniera gli alberi parlano arabo” di Usama Al Shahmani
Qual è il legame fra Iraq e Svizzera? Sole, deserto e guerra da una parte; gelo, bosco e pace dall’altra. Paesi distanti e antitetici. Quali sono, allora, i fili invisibili che li uniscono? Ali, Naser, Bilal, Kamal, Meran, Usama e tanti altri ancora; sono i migranti che hanno trovato rifugio nella Confederazione Elvetica e non hanno mai cessato di pensare alla loro patria.
Uno di loro, Usama Al Shahmani, nato a Bagdhad nel 1971, traduttore e studioso di poesia e letteratura araba, rifugiato in Svizzera dopo la Seconda guerra del Golfo, ha affidato il racconto della sua esperienza al romanzo In der Fremde sprechen die Bäume arabisch, edito a Zurigo nel 2018.
L’opera, che ha immediatamente riscosso un ottimo successo, è stata recentemente pubblicata in Italia, per i tipi di Marcos y Marcos, con il titolo In terra straniera gli alberi parlano arabo.
Il romanzo ruota attorno alla figura dell’albero, l’elemento pacificatore in cui l’autore/protagonista ritrova sé stesso e il legame con la patria lontana. Una poetica dichiarata sin dalle prime pagine: «Hub – semah – shager. L’eco araba ritornò diversa dal bosco: si fece sentire più snella, affilata. Fu una bella sensazione, sentire l’arabo nel bosco. Dunque la natura non era affatto muta, bastava rivolgerle la parola e stare ad ascoltarla. E gli alberi in terra straniera parlavano addirittura arabo, mi dissi, e aprii le braccia. Inspirai il profumo degli alberi, osservai i rami e le gemme e avvertii che il bosco mi accoglieva».
Con una scrittura ispirata e fortemente metaforica, Al Shamhani ripercorre, in sette capitoli-alberi, il difficile cammino dal centro d’accoglienza dei richiedenti asilo all’integrazione nella comunità elvetica, attraverso la complicata ricerca di un lavoro stabile e la creazione di una famiglia. Un percorso coronato dalla simbolica escursione alla vetta del Säntis, dove, raggiunta la cima, tutti si congratulano per l’impresa: «Hanno fatto i complimenti anche a me, poi ho saputo che si tratta di una tradizione svizzera. La conquista di una meta comune crea vicinanza reciproca».
Ci sono le atmosfere rarefatte della Svizzera, ma soprattutto tanto Iraq insanguinato nelle pagine di questo romanzo che si sviluppa su due piani: il faticoso cammino del protagonista verso l’integrazione e le drammatiche vicende che hanno colpito la sua famiglia in patria, con la scomparsa del fratello Ali, inghiottito nel buco nero delle fosse comuni.
Nel continuo confronto fra due culture divise su ogni aspetto, un ruolo privilegiato è giocato dagli alberi: da un lato ci sono le querce, gli abeti e le betulle, i frassini che Usama scopre in Svizzera; dall’altra le piante della sua terra, le palme, gli ulivi, i melograni e i limoni. Gli alberi e la natura, molto più delle parole, che talora possono ingannare, rappresentano per lui l’unica vera consolazione: «È un’esperienza che ho fatto per la prima volta in Svizzera, in Iraq la natura era solo una materia scolastica».
L’intento di radicarsi nella nuova terra senza perdere le proprie tradizioni è ben evocato dal tentativo di piantare una palma da datteri, con i noccioli spediti dalla madre. Un tentativo che purtroppo fallisce dopo tre anni, quando la pianta inesorabilmente appassisce per il freddo invernale. Sarà l’amico Bilal a colmare questo vuoto, regalandogli una palma da datteri in vaso che proviene dall’Italia meridionale e che «Avrà certamente anche radici arabe…».
Il protagonista oscilla di continuo fra due mondi, con la sensazione di sentirsi ovunque straniero, sia nell’accogliente Svizzera, che nella lacerata terra dei padri. Mutuando l’immagine da Franz Kafka, si autodefinisce come un «insetto caduto sul dorso» che continua ad agitarsi ma non fa alcun passo avanti.
Come l’incontro con la natura è lo snodo centrale dell’intero percorso di emancipazione, le parole rappresentano, nella loro duplicità semantica, la chiave di volta della nuova vita. E se in arabo il sostantivo bosco ha un’accezione negativa e il verbo camminare è scarsamente utilizzato, nell’esperienza del protagonista camminare nel bosco, insieme al parlare con gli alberi, diventa l’attività privilegiata per riconciliarsi con l’esistenza.
Disseminate qui e là nel romanzo, vengono descritte, poi, le diverse situazioni stranianti che un migrante può incontrare in Svizzera: gli ospiti possono entrare in cucina, si corre senza interessarsi degli altri, i cimiteri sono verdi e curati, i politici vanno al lavoro in bicicletta, non ci sono posti di blocco, niente polizia, né servizi segreti; siamo distanti anni luce dalla drammatica realtà irachena e mediorientale. È un mondo aperto e inclusivo ma non totalmente permeabile: «un profugo qualificato non può mettere radici in questo paese come vorrebbe. In un sistema dove tutto è profondamente coeso e connesso, è difficile che uno straniero trovi un varco per entrare».
Al di là delle tradizioni e dei legami familiari, è Ali, il fratello scomparso, vittima della violenza cieca dell’Isis o di Al Qaeda, il filo indissolubile che lega il protagonista alla sua terra e il vero motore di tutta la storia, come confesserà esplicitamente a un amico nel romanzo:
“Sto scrivendo un libro su di lui”.
“Bene, in arabo o in tedesco?”
“Ho ripreso a scrivere in tedesco”.