Intervista a Dario Coletti
Abbiamo fatto quattro chiacchiere con Dario Coletti, fotografo professionista romano classe 1959 e artista engagé. I suoi lavori, per sua stessa definizione, hanno come tema principale l’uomo “come un elemento dinamico a cavallo tra grandezza e miseria, tra aspirazioni universali e spirito di sopravvivenza”. Alcune fotografie sono visibili qui, altre sono conservate in biblioteche e musei nazionali e internazionali come l’Opera House del Cairo, la galleria Mole di Tokyo, il Palazzo delle Esposizioni di Roma e il centro Santa Chiara di Trento.
Tutta la redazione del Culturificio lo ringrazia per aver accettato, con il suo solito entusiasmo, di fare questa piccola intervista.
Nelle tue fotografie preferisci il bianco e nero: a cosa è dovuta questa tua scelta?
Quando ho iniziato a lavorare era alla portata di tutti scattare, sviluppare e stampare pellicole e carte in bianco e nero. Questa competenza permetteva a chi assumeva il ruolo di narratore la gestione complessiva dell’intero progetto narrativo così da raccontare eventi e storie a partire da un sapiente dosaggio di ombre e luci: la scelta era effettivamente legata all’assoluta libertà interpretativa ed espressiva.
In una tua presentazione onesta e semiseria affermi di aver sviluppato un senso di non appartenenza ai luoghi. Ma non puoi negare di avere un rapporto molto speciale con la Sardegna…
Non appartenenza per me non è sinonimo di distanza o indifferenza: semmai è la proclamazione di un profondo rispetto per i luoghi, gli uomini e le vicende che incontro nei miei itinerari di conoscenza. Questa “non appartenenza” a niente e a nessuno è anche congeniale a distinguere nuovi sentimenti da quelli che mi legano al mio luogo d’origine. In questo senso, tanto la Sardegna quanto lo Sri Lanka, costituiscono riferimenti culturali che si radicano nella mia coscienza in forma di patrie successive, che con la loro diversità fanno di me un uomo pronto ad affrontare e decodificare nuove suggestioni. Mi ritrovo, quindi, ad amare i luoghi che ho frequentato per il potenziale formativo esercitato su di me e, soprattutto, perché dove alberga qualsiasi tipo di umanità mi sento a casa.
Hai iniziato da autodidatta, ora insegni e coordini la Scuola di Fotogiornalismo di Roma. Quanto servono a un fotografo il talento e una capacità innata e quanto invece deve ricorrere allo studio?
Il termine autodidatta deriva dal termine greco autodidaktos (αὐτοδίδακτος) e può riassumersi nel significato di “istruito da sé”. Non descrive un atteggiamento superficiale o casuale nell’affrontare la propria formazione, semmai implica un percorso conoscitivo organizzato in proprio con propri tempi e basato su forti interessi. Un itinerario che ha generato in me una coscienza universale quando mi ha spinto a raffrontare e cercare connessioni tra diverse discipline e saperi alla ricerca di un pensiero originale. Questo atteggiamento di curiosità e appetito insaziabile è lo studio, e il fatto che questo processo avvenga fuori dagli organi ufficialmente preposti alla formazione non diminuisce il valore del pensiero. Quando da questa ricerca ho avuto la sensazione di ottenere dei risultati mi è parso normale comunicarli a chi voleva intraprendere la mia stessa strada.
C’è da dire che ho passato la mia adolescenza, negli anni settanta, in una borgata di Roma. Noi, i giovani della periferia romana, potevamo diventare: delinquenti, seguendo il percorso di alcuni nostri coetanei; integrati, facendo riferimento alla formazione borghese che ci voleva come mano d’opera, indifferenti incolti e subalterni; rivoluzionari, seguendo delle istanze di crescita e di rovesciamento del destino imposto da un’atmosfera politica malsana. A quei tempi ci siamo organizzati e abbiamo creato scuole di musica e fotografia per i nostri coetanei e per i bambini delle elementari: abbiamo cambiato esistenze e, mentre lo facevamo, cambiavamo anche la nostra.
Cosa pensi di Instagram e del successo, trasversale a tutte le età, che sta avendo questo social?
Penso a Instagram e ai nuovi metodi di trasmissione delle informazioni come a un’opportunità da gestire e a cui, vista la diffusione capillare, è improduttivo cercare di opporsi. È necessario, casomai, mettere in atto strategie di utilizzo che evitino il rischio di essere governati o strumentalizzati dai potentati della comunicazione digitale. Credo, invece, che utilizzando le peculiari possibilità che sono insite nei social e inserendo, nel fruirne, contenuti reali, questi possano aiutarci ad analizzare la società e ad individuare soluzioni ai problemi e alle incongruenze nascenti, oltre che a comunicare con il mondo.
Bisogna non adagiarsi: studiare giornalmente le trasformazioni che avvengono all’interno di queste procedure comunicative e attrezzarsi ad essere efficaci nell’affermazione del proprio punto di vista, senza mai essere schiavizzati o attratti esclusivamente da aspetti meramente tecnologici.
Roland Barthes ha scritto un bellissimo saggio sulla fotografia nel 1980, Camera chiara. Ad un certo punto il critico francese afferma che “la fotografia è l’avvento di me stesso come altro: un’astuta dissociazione della coscienza di identità.” Come ti rapporti con l’altro (sia questo oggetto o soggetto) delle tue foto?
Credo che Barthes intenda analizzare l’atteggiamento che il fotografo mette in atto quando è di fronte a qualcosa da raccontare. Bisogna partire da una definizione che vede la fotografia come una sintesi tra il mondo interiore di chi la realizza, il fotografo, e il soggetto ripreso. Ogni uomo, e quindi anche quegli uomini che scelgono la disciplina della fotografia come mezzo espressivo, è la “risultante” di innumerevoli opportunità ed eventi che si sono manifestati nel corso del suo tragitto di vita, una combinazione inverosimile e irriproducibile che rende tutti gli individui differenti, e sviluppa una posizione di sguardo originale da cui affrontare i soggetti esterni.
Il fotografo e lo sciamano è un libro che, insieme alle tue fotografie, contiene una serie di racconti. Quanto è stringente il rapporto tra letteratura e fotografia? Ci sono alcune opere letterarie che sono state fondamentali per il tuo percorso da fotografo?
Quando si affronta il tema del rapporto tra testo e fotografia ci troviamo frequentemente ad ascoltare reiterati luoghi comuni che vedono alternativamente sul podio dell’eccellenza ora l’uno ora l’altra: “un’immagine parla più di mille parole” è una frase che abbiamo sentito allo sfinimento. Le domande che bisogna porsi sono semmai: quali parole? Quali immagini? Un verso breve di Ungaretti è difficilmente raggiungibile da un’immagine, quanto una foto di Giacomelli è difficilmente raggiungibile da una parola.
Direi, semmai, che la competizione si deve svolgere tra parole e immagini efficaci, e in questo caso noteremo che il potere dell’una eguaglia il potere dell’altra. In più, riprendendo una frase detta dalla famosa fotografa genovese Lisetta Carmi, una foto senza una didascalia perde gran parte del suo potere narrativo, in quanto la didascalia completa le informazioni necessarie alla decodifica dei fatti e contestualizza il “testo grafico”. Sopra ad ogni tecnica narrativa semmai porrei il pensiero, la filosofia, la descrizione dello spirito del tempo.
Per quanto mi riguarda nella mia formazione professionale accanto ai lavori e ai libri dei grandi fotografi ci sono altrettanti libri, soprattutto di narrativa; il neorealismo italiano, per l’aderenza alla realtà e la capacità sintetica di descrizioni interiori, Pasolini e la sua esistenza controcorrente, epica ed etica assieme, Omero con i suoi poemi, Furore di Steinbeck con le descrizioni dei migranti interni, sfruttati tra la east e la west coast, Carver, De Lillo, Tolstoj, Roth ed Hesse.
Intervista a cura di Susanna Ralaima
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