Alessandro Foggetti
pubblicato 4 anni fa in Cinema e serie tv

Intorno a “Mario Monicelli. Con il cinema non si scherza”

Intorno a “Mario Monicelli. Con il cinema non si scherza”

In Roma città aperta c’è una scena famosa in cui Fabrizi, il prete, per far star zitto un vecchio malato sotto il cui letto i bambini hanno nascosto delle bombe, e mentre nel casamento c’è il rastrellamento tedesco che porterà alla morte della Magnani, lo stordisce con una gran padellata in testa. Bene, è lì secondo me che è nata la commedia all’italiana di tipo nuovo, quella che ha saputo mescolare tragico e comico, morte e vita.

Mario Monicelli. Con il cinema non si scherza, edito da Edizioni Cineteca di Bologna, nasce da alcune conversazioni che si sono svolte a casa del regista, in via dei Serpenti a Roma, nell’autunno del 2008 in compagnia del critico letterario e cinematografico Goffredo Fofi. Una lunga chiacchierata che punta dritto verso il pensiero politico, cinematografico e sentimentale del regista, che trova le sue radici nel discorso storico sull’Italia fascista fino ad arrivare all’amicizia con Steno e alle collaborazioni con Age e Scarpelli. 

La foto di copertina e quelle tra le pagine del libro, scattate da Pino Guidolotti, diventano una chiave quasi imprescindibile per aprire la porta del contesto conviviale dell’intervista e, da curioso lettore, per entrare nella stanza con loro, sentendo subito profumo di cinema: sembrano due vecchi amici che parlano del più e del meno, Goffredo Fofi e Mario Monicelli, seduti sul divano con degli spessi maglioni di lana e dei grandi sorrisi di stima.

In questo clima, disteso e domestico, le domande del critico cinematografico cominciano da un generico: «Mario, come giudichi la storia del paese Italia?» così da lasciare spazio a una prima parte d’intervista stratificata, composta da tappe che ripercorrono la storia italiana e la crescita di Monicelli: l’Unità d’Italia, il fascismo, la seconda guerra mondiale, l’eredità socialista, il ’68 e Berlusconi, in una analisi lucida e pungente, equiparabile a molte delle sue opere filmiche. Ma i discorsi, le domande e le riflessioni ruotano sempre intorno al cinema, con l’arguzia di Fofi e la maestria di Monicelli: nel libro, si va dal cinema muto a quello contemporaneo, passando per le relazioni con sceneggiatori (Flaiano, Amidei, Age, Scarpelli…), attori (Sordi, Magnani, Gassman, Totò…) e operatori (Delli Colli, Arata, Di Venanzo…) fino all’elaborazione e creazione delle opere stesse. Questo consente di fare luce sugli angoli più nascosti del variegato mondo cinematografico, con lo sguardo di chi è sempre stato dietro la macchina da presa.

Il modo più moderno di raccontare il mondo era il cinema, e nel cinema era la commedia a coinvolgere di più il pubblico, anche nei suoi aspetti più ovvi e più volgari, ma sempre con un fondo che era morale. La commedia di costume viene dalla commedia dell’arte, parte dalla fame e dalla morte, dall’arte di arrangiarsi e dalla resistenza alle prepotenze del potere, della Storia.      

Un regista estremamente prolifico, capace di dirigere opere indelebili: I soliti ignoti (1958), dove la coralità e lo stile moderno aprono le porte a una nuova narrazione; La grande guerra (1959), nella quale entra in gioco continuamente con la profondità di campo, ispirato al racconto Deux amis di Guy de Maupassant, punto di partenza della definitiva consacrazione della commedia all’italiana grazie alla sceneggiatura di Age e Scarpelli e alla sontuosa interpretazione di Gassman e Sordi; Risate di gioia (1960), tratto dalle novelle di Alberto Moravia Le risate di gioia e Ladri in chiesa, dove, eccetto che per il titolo, non c’è granché da gioire; L’armata Brancaleone (1966), una pellicola grottesca medievale con un latino rivisitato in chiave dialettale, sempre con il mattatore Gassman; La ragazza con la pistola (1968), interpretata dalla talentuosa Monica Vitti; il sardonico Amici miei (1975) o Il Marchese del Grillo (1981), con le memorabili battute di Alberto Sordi:

È stato il personaggio italiano più forte di tutti lungo quarant’anni di storia. Sottolineava le bassezze e i difetti degli italiani in maniera tale che poi gli italiani finirono col divertircisi molto, tutti naturalmente pensando che Sordi parlasse degli altri, mai di loro stessi. Coglieva il carattere nazionale in maniera straordinaria, e in questo senso era davvero un autore perché il suo personaggio l’ha inventato lui, e tutti noi registi e sceneggiatori abbiamo lavorato su quella falsariga con le nostre mille variazioni.

I film di Mario Monicelli, titoli che hanno certamente lasciato un segno indelebile nella storia del cinema italiano, sono accomunati spesso dalla mancanza di un lieto fine: l’ironia e le sceneggiature portano alla risata, ma una risata amara. Questo archetipo, spesso condito dalla coralità dei personaggi, non è semplicemente il risultato di una nuova formula narrativa, ma della presa di coscienza sempre più consistente di una realtà culturale, e sociale, carica di incongruenze e contrasti, soprattutto quella dell’Italia degli anni Sessanta. Ma il germe della commedia all’italiana nasce prima e subito dopo la guerra, tra i tavoli dei bar e dei ristoranti di Roma con il chiacchiericcio, le battute, le discussioni e lo scambio di vedute artistiche:

Stavamo tutti quanti dentro lo stesso triangolo, fra Piazza di Spagna e Piazza Mignanelli e Piazza San Silvestro, dove c’erano e ci sono ancora le poste centrali di Roma o Piazzale Flaminio, perché poco più avanti, proprio sulla Flaminia, c’era l’osteria dei fratelli Menghi, detta l’osteria dei pittori. I pittori stavano a via Margutta, a Piazza del Popolo non c’era niente ma bastava attraversare la porta per ritrovarsi sulla Flaminia. Tutta la cosiddetta scuola romana andava lì, dai fratelli Menghi, che erano famosissimi anche perché tra loro litigavano sempre, spesso si menavano e bisognava dividerli. Ci andavo anche io, ma di rado, perché frequentavo la parte “cinema” e non quella “pittura”, e la parte cinema si ritrovava a via della Croce.

Prontuario

Stimolato dai racconti sulla politica e soprattutto sulla narrazione intorno alla visione del socialismo di Monicelli, credo sia giusto e doveroso approfondire I compagni (1963). Scritta insieme all’immancabile coppia Age e Scarpelli, girata tra Torino, Savigliano, Cuneo, Moncalieri e un paese della Jugoslavia, narra di un argomento inusuale, tabù per l’epoca del miracolo economico: le vicende e le sommosse operaie di una fabbrica tessile torinese di fine ’800: un gruppo di operai che decide di chiedere ai padroni un trattamento migliore e la riduzione delle quattordici ore di lavoro.

Inizialmente, ancora impreparato per una rivolta, il “Comitato” si avvicina allo sciopero affidandosi al Professor Sinigaglia (Marcello Mastroianni) – ruolo cucito su misura per l’attore, ispirato alla figura di Claudio Treves – intellettuale borghese e marxista, ricercato dalla polizia. Come avviene stilisticamente per La grande guerra (1959), lì per l’esercito, ora per gli operai, la profondità di campo – tutti gli elementi davanti la macchina da presa (profilmique coniato da Étienne Souriau) sono a fuoco – diventa lo strumento ideale per raffigurare la coralità, l’uguaglianza e l’unione dei personaggi; e nella scena del saluto finale tra gli “innamorati” l’educazione del regista, che deriva dal cinema muto, è nitida: il treno in arrivo rende inascoltabili le loro parole. Se da una parte quest’opera mette in risalto la vena anticapitalista di Monicelli, dall’altra è lampante anche una sorta di sfiducia negli esseri umani, corruttibili e disfattisti, e nelle classi sociali più sensibili, apparentemente attirate dal fallimento: in un sistema malato e nocivo, dove ogni sforzo sembra inutile. Si tratta di un’opera meravigliosa, forse meno nota perché uscita in un momento storico molto proficuo per il regista, formata da elementi esilaranti e tragici sempre in funambolico equilibrio sulla corda dell’ironia e della drammaticità.      

Tornando al libro e allo scorrere delle pagine, oltre all’aspetto idealistico e cinematografico di Monicelli, emerge anche un profondo lato emotivo in riferimento ai rapporti con amici e colleghi. A questo proposito, la sua amicizia con Steno, disegnata con la matita della stima e della simpatia, traspare verso la conclusione del testo, quando il lettore può scoprire da un’altra prospettiva un lato meno conosciuto del regista:

Steno era un uomo molto preciso, molto pragmatico, molto spiritoso, a tutto quello che avveniva intorno guardava con attenzione e divertimento. Ricordo come si divertiva, per esempio, mentre giravamo le scene in cui Totò faceva i suoi lazzi, gli venivano le lacrime agli occhi dalle risate, che pure cercava di soffocare. Della realtà coglieva sempre gli aspetti più divertenti, sapeva riconoscerli, appuntarseli nella memoria, e si divertiva, non aveva nessuna spocchia intellettuale pur essendo, invece, una persona estremamente colta. 

Mario Monicelli, nato nel 1915, il maestro che non voleva essere chiamato tale, è scomparso il 29 novembre 2010. Una vita lunga quanto il suo talento, con uno sguardo incomparabile e puntuale sull’Italia, la sua storia e le sue continue trasformazioni. Il regista, che ha firmato alcune delle più significative narrazioni cinematografiche del Novecento, così si descriveva:

Io lavoro sulla quantità, come faceva Goldoni. Non voglio fare paragoni ma parlare di un modo di lavorare. Goldoni aveva una sua compagnia e doveva scrivere ogni anno tre quattro commedie, ha lavorato sulla quantità e di questa, alla fine, quanto è rimasto, quante sono le commedie che si ricordano e che si rappresentano ancora? Dieci, dodici… Io, nel mio piccolo lavoro sulla quantità come Goldoni. Ho fatto una sessantina di film e di questi quanti ne rimarranno? Quattro, cinque, forse solo due, uno…