“Io che non ho conosciuto gli uomini” di Jacqueline Harpman
solitudine e collettività nell’Apocalissi
C’è qualcosa di magnetico che aleggia tra le pagine di Io che non ho conosciuto gli uomini di Jacqueline Harpman. Pubblicato nel 1995, tradotto da Sara Clamor ed edito da Blackie nel 2024, il romanzo è un ininterrotto flusso di coscienza che traveste il racconto intimista di abiti distopici.
La protagonista del romanzo non ha nome, è evanescente, ma simultaneamente concreta e attiva. Vive insieme ad altre trentanove donne in un bunker sorvegliato da guardie, ma – a differenza delle sue compagne – non ha mai conosciuto gli uomini, perché approdata alla prigione quando era appena una bambina. Se le altre donne si ricordano di un passato in cui le relazioni sentimentali e sessuali erano il fulcro dell’esistenza, “la piccola” – così viene soprannominata – non ha mai fatto esperienza di un mondo al di fuori delle profondità artificiose della prigione in cui si trova. Ma non solo: a minare la sua femminilità e ad acuire la distanza con le altre prigioniere c’è anche la sua sterilità. D’altro canto, però, in un futuro post-apocalittico in cui l’incontro tra generi è impossibile, che cosa definisce la femminilità? Se non si sono conosciuti altri esseri umani oltre alle donne, è così fondamentale essere definite dal genere?
Gli uomini nel romanzo di Harpman sono fantocci e simulacri: presenti sullo sfondo, non sono mai personaggi attivi; eppure, nelle pagine iniziali sembra quasi che la gabbia in cui sono prigioniere le quaranta donne non sia altro che un riflesso del patriarcato che permea la società dall’alto, ovvero l’entità misteriosa che regola l’incarceramento, fino al basso, rappresentato dalle sei guardie che controllano il bunker. I carcerieri sono silenti e imperturbabili, nessuno di loro interagisce o rivolge la parola alle donne: fanno percepire la loro presenza unicamente con lo schiocco delle loro fruste. Sottopongono così le prigioniere a un tipo di violenza subdola, volta a mantenere lo status quo, ma senza alcun tipo di eccedenza. Ogni forma di ribellione o di rivolta è impossibile, sia nei confronti delle guardie, che tra le donne e verso sé stesse: l’unico scopo della vita è arrivare fino al suo esaurimento naturale, un gioco crudele in cui il proprio destino è relegato al tedio e all’inerzia.
A metà del romanzo un capovolgimento sembra riequilibrare lo scontro tra i sessi che domina la prima parte del libro. Per una coincidenza fortuita le quaranta donne riescono a fuggire dalla gabbia, ma la tanto agognata libertà si interrompe nel momento in cui capiscono che il mondo esterno è tanto desolato quanto quello in profondità. Occorre ricostruirsi, trovare nuovi scopi e nuovi modi per scandire le proprie esistenze, diventare nomadi alla ricerca dei propri simili e di un qualcosa di Altro. Il mondo su cui camminano sembra terribilmente simile e contemporaneamente opposto al nostro Pianeta, è desertico e costellato solo da prigioni sotterranee gemelle con quella delle protagoniste. Le gabbie sono abitate dai corpi morti di donne, sì, ma anche di uomini: elemento che fa presagire un qualche tipo di esperimento di ripopolamento o di colonizzazione finito male. Tutte le guardie, invece, sono svanite nel nulla. C’è un concorso di colpa tra creatori e sorveglianti, o essi stessi sono vittime del sistema? Sorge quasi spontaneo un parallelismo con il più noto Il Racconto dell’Ancella di Margaret Atwood: in che misura siamo responsabili delle azioni che compiamo all’interno di società autoritarie, patriarcali e capitaliste? Da vittime ci trasformiamo in carnefici: solo coloro che hanno fatto esperienza di realtà non alienate riescono a rompere il sonno delle nostre coscienze, restituendoci un senso di collettività e di agitazione.
Ma a che mondo appartengono le lande sterili calpestate dalle donne? Sono di una Terra post-apocalittica? O siamo su un altro pianeta, dove i pochi sopravvissuti sono stati inseriti più o meno consciamente in un programma sperimentale? Il romanzo è un ibrido tra il memoir e il soliloquio, una visione parziale e incompiuta di un’esistenza indecifrabile e, apparentemente, senza scopo alcuno. Gli interrogativi iniziali rimangono perlopiù irrisolti, proprio come rivelano sin da subito le numerose incursioni nel racconto dell’io narrante, e catapultano il lettore in una quête interrotta solo dalla morte dell’anonima protagonista. Il senso ultimo, quindi, non è tanto sviscerare e ricomporre un universo distopico, quanto interrogarsi su solitudine, relazioni tra generi ed umanità.
Io che non ho conosciuto gli uomini analizza da una prospettiva psicoanalitica l’esperienza dell’umanità, dell’arte e dell’esistenza. L’interrogativo martellante tra le pagine è uno solo: che cosa ci rende umani? La “piccola” percepisce una costante smarginatura tra sé stessa e le altre, una ferita che viene rimarginata grazie a un senso di collettività acquisito a partire dalle abitudini dell’essere umano: la scansione del tempo, l’esercizio del pensiero e le pulsioni erotiche e sentimentali. Da questi tre snodi, poi, nascono per la ragazza la curiosità verso l’apprendimento e la sua formazione intellettuale: oltre alle esigenze pratiche e legate alla sopravvivenza, impara a fare di calcolo, a scrivere, a fantasticare romanticamente sul suo carceriere più giovane. E proprio quest’ultimo elemento, un segreto che inizialmente vuole tenersi stretta, è il motore che scandisce l’azione: la sensazione di “vertigine”, di eccitazione e di agitazione è ciò che in prima istanza la rende umana. Non tanto un desiderio animalesco e primitivo, quanto un contatto agognato con l’altro genere, un frutto proibito che rimane tale per lei, che non ha mai conosciuto gli uomini.
Questa vertigine è l’origine di ogni slancio creativo della protagonista. Da semplice fantasia viene elaborata sempre di più e rimane poi inebriante, si trasforma nello spirito di intraprendenza di una giovane donna alla ricerca del sé, per terminare nel bunker/villa in cui trascorrerà i suoi ultimi anni con la scoperta dei grandi classici che la affascinano, la formano, ma con cui sente una inevitabile distanza, che emerge già nell’incipit metaletterario:
Da quando non esco quasi più passo molto tempo in una delle poltrone, a rileggere i libri. Ho scoperto l’interesse per le prefazioni solo di recente. Lì gli autori parlano volentieri di sé, e spiegano per quali ragioni hanno redatto l’opera.
Si staglia così un romanzo ipnotico e ciclico, talvolta apolitico, che non ci rivela nulla, ma che è specchio dell’insensatezza delle nostre esistenze terrestri: le abbiamo riempite futilmente, eppure rimangono inspiegate e inspiegabili in una ricerca costante di altri bunker e altre isole, tra praticità quotidiana e poesia.
di Carola Crippa