Io non sono la meta, io sono una viaggiatrice: le “Eroine” di Marina Pierri
In una scena della seconda stagione (episodio 11, Holly) di The Handmaid’s Tale (2017) la protagonista June si rivolge a sua figlia e le dice:
Continuerò con questa storia zoppicante e mutilata perché voglio che tu la senta. Sentirei la tua se mai ne avessi l’occasione, se ti incontrassi mentre fuggi nel futuro o nel cielo. Raccontarti qualcosa significa credere in te, credere che esisti. Se ti sto raccontando questa storia è perché voglio che tu esista. Racconto dunque tu esisti.
Quest’ultima frase racchiude la forza delle parole, in grado di trasformare la realtà o addirittura di crearla. Una capacità che è all’origine di tutto: «Dio disse “Sia la luce”. E la luce fu», si legge nella Bibbia.
Raccontare può rappresentare un atto di ribellione, soprattutto per chi di questo potere è stato per troppo tempo privato e decide di lottare per far sentire la propria voce. Narrare una storia, infatti, è un modo per affermare il proprio punto di vista e di conseguenza, come dice June, esistere. Così le parole dalle pagine di un libro o dallo schermo possono condizionare anche il mondo reale.
Ed è proprio partendo da quest’idea che la giornalista Marina Pierri ha scritto Eroine. Come i personaggi delle serie tv possono aiutarci a fiorire (edizioni Tlon, 2020), un saggio in cui evidenzia come i prodotti televisivi e in particolare alcune delle sue protagoniste siano capaci di provocare un cambiamento in noi spettatori.
Da ciò deriva la responsabilità delle narrazioni nella diffusione di determinati immaginari, i quali contribuiscono a dare una versione della realtà circostante, facendoci immergere in mondi che sono lontani da noi e a cui possiamo avvicinarci soltanto attraverso il filtro della televisione, del cinema o della letteratura. Non raccontare alcune storie, o farlo tramite lo sguardo stereotipato di coloro che non hanno vissuto sulla propria pelle quelle esperienze, significa delegittimare la loro esistenza e ingabbiarla dentro schemi che altri hanno costruito per loro.
La serialità televisiva gode di una crescente popolarità, ed è dotata di una forza incisiva perché di puntata in puntata e di stagione in stagione entra a far parte della nostra quotidianità. La visione in casa, inoltre, rafforza ulteriormente questo rapporto intimo che si viene a creare con i protagonisti, che ci tengono compagnia nei momenti più disparati della giornata.
Grazie anche a varie forme di engagement, il processo di identificazione dello spettatore determina dunque un coinvolgimento sempre maggiore, per cui i personaggi diventano quasi parte della famiglia, o addirittura parte di noi, frammenti della nostra identità.
Nell’esplorare tutto questo Marina Pierri decide di farsi guidare dalla psicologia junghiana, analizzando ventidue protagoniste contemporanee per evidenziare il loro ruolo di archetipi che scavando nell’inconscio collettivo riflettono caratteristiche intrinseche in ogni essere umano.
La figura femminile è stata spesso percepita come oggetto dello sguardo maschile, spettacolo da ammirare, non attiva ma ancorata in un rapporto di subordinazione al punto di vista dell’uomo. La teoria elaborata da Laura Mulvey, autrice dell’articolo Visual Pleasure and Narrative Cinema, considerato il più importante intervento nell’ambito dei Feminist Film Studies, sottolinea come «unendo il proprio sguardo a quello del personaggio, lo spettatore sarà in grado di possedere vicariamente la donna». Ne deriva, dunque, un’idea della visione che diventa appropriazione dell’oggetto guardato.
A tal proposito in Eroine l’autrice racconta l’episodio in cui la psicologa Maureen Murdock chiede a Joseph Campbell qual è la differenza tra il percorso dell’eroe e quello dell’eroina all’interno delle narrazioni: lui risponde che la donna non viaggia, ma è la meta da raggiungere.
In risposta a questa affermazione nel 1990 Murdock scriverà Il viaggio dell’eroina in cui sostiene un’altra tesi: anche la donna è una viaggiatrice ma le sue tappe sono diverse.
A trent’anni di distanza, Marina Pierri decide di indagare alcuni personaggi che hanno caratterizzato l’immaginario televisivo contemporaneo, il quale ha subito numerosi cambiamenti, come la nascita delle piattaforme di streaming. Queste trasformazioni hanno contribuito ad aumentare il numero di donne che lavorano dietro la macchina da presa, registe e showrunner, e di conseguenza il numero di protagoniste. Ma le loro percentuali rimangono comunque più basse rispetto a quelle maschili.
Per l’autrice la differenza tra il percorso dell’eroe e quello dell’eroina è data dal fatto che quest’ultime devono affrontare innanzitutto un processo di distruzione, prima che di costruzione, così da emanciparsi da quello sguardo che per secoli le ha viste in un certo modo e trovare sé stesse.
Il loro viaggio è soprattutto interiore, e comincia con la presa di consapevolezza della gabbia in cui si trovano. Una prigionia all’apparenza rassicurante in cui sentirsi protette e accettate, ma che in realtà le soffoca. Devono attraversare lo specchio che riflette la loro immagine, indagare al suo interno, spogliandosi delle proprie certezze, per poterne uscire capaci di rappresentarsi libere.
Anche se a volte è difficile distinguere tra ciò che si vuole veramente e i condizionamenti a cui tutti siamo sottoposti. In questo caso avere modelli diversi e sfaccettati aiuta a capire chi diventare, e se questi esempi non si trovano nel mondo circostante, si può comunque trarre ispirazione dalle storie di cui ci nutriamo ogni giorno attraverso vari media.
L’autrice divide dunque tra Eroine-Guida ed Eroine-Ombra, accompagnatrici di questo viaggio in cui ognuno può riconoscersi, dove con il termine ombra si intende sia ciò che viene considerato deviante rispetto alle norme imposte dalla società, sia quelle caratteristiche che risultano dannose per sé stessi.
Gli archetipi, inoltre, sono strettamente collegati alle divinità classiche poiché il mito rappresenta un’incarnazione della psiche, concretizzazione dell’inconscio tramite personaggi-simbolo.
A tal proposito tra i vari archetipi analizzati risulta di particolare interesse al giorno d’oggi, in cui spesso si fa confusione tra i concetti di femminismo e girl power, quello riguardante la Guerriera, simboleggiata da Atena.
Pierri mette in guardia dalla rappresentazione di donne dotate di “attributi maschili”, perché si finisce per esaltare figure femminili che talvolta sono riuscite a ottenere successo soltanto adattandosi a sistemi che continuano a ostacolare tutte le altre. Essere l’unica donna che ce l’ha fatta non fa di te automaticamente un’eroina. Privilegiare personaggi che incarnano una serie di caratteristiche che sono considerate tipicamente maschili, come la forza o il potere, rinunciando ad altre come l’empatia e tutto ciò che riguarda l’emotività, è un errore. Il rischio è di passare da un opposto all’altro, quello della super donna che riesce a far tutto seguendo i canoni, anche in questo caso stereotipati, di una certa idea di mascolinità, declinata però in un corpo femminile. Occorre invece raccontare la complessità, non offrire un modello unico. L’espressione eroine, infatti, non indica figure invincibili ma diverse tra loro, le quali affrontano le proprie vulnerabilità e demoni sia esteriori che interiori.
Avere un carattere particolarmente sensibile e generoso, portato a prendersi cura degli altri, non deve significare rinunciare a sé stesse, ma pensare al benessere della comunità all’interno della quale si fa parte, contribuendo in questo modo a guidarla cercando di tenere in considerazione i bisogni di tutti. Lo dimostra l’importanza di un archetipo come quello dell’Angelo Custode rappresentato da Ruth di Glow (2017), a mio parere una delle serie tv migliori degli ultimi anni, soprattutto per quanto riguarda i suoi personaggi. Donne anticonvenzionali e complesse, ognuna con una storia differente, che trovano in un eccentrico spettacolo di wrestling un modo per riscoprirsi e sperimentare una nuova libertà, giocando con gli stereotipi e finendo per ridicolizzarli.
Quando guardiamo un prodotto audiovisivo un elemento essenziale è proprio l’ascolto attivo. Non occorre necessariamente un’identificazione con il personaggio ed essere al centro della storia. Soltanto mettendo da parte questo egocentrismo narrativo si può cercare di entrare nei panni altrui e allargare il proprio punto di vista. Ciò è tutt’altro che passivo, sottolinea Marina Pierri, al contrario implica una «grande attività interiore» che permette di andare oltre la limitatezza della nostra esperienza diretta. Ascoltando gli altri si finisce sempre per capire meglio noi stessi.
Questo concetto è ben espresso dalla copertina di Eroine che vede alcune delle protagoniste del libro mentre chiacchierano tra loro, dalla piccola Eleven di Stranger Things (2016) a Fleabag (2016), passando per la fantastica signora Maisel e Sana di SKAM Italia (2018). Ognuna di loro incarna un archetipo differente a partire dall’innocente fino ad arrivare alla folle, che non ha insegnamenti da offrirci se non «l’indeterminatezza della libertà».
E dal momento che lo spettatore fa propri i personaggi, imparando da loro, questo viaggio è anche il nostro. In questo modo la serialità televisiva diventa uno specchio attraverso cui guardarsi e cercare di comprendersi, anche attraverso il riflesso degli altri.