Niccolò Fallani
pubblicato 7 mesi fa in Letteratura

Italo Calvino e la ricerca di sé stesso

"La giornata di uno scrutatore"

Italo Calvino e la ricerca di sé stesso

La giornata di uno scrutatore è un romanzo che si colloca in un momento particolare della produzione calviniana, ovvero fra due libri non nuovi: I nostri antenati (1960) e la seconda edizione del Sentiero dei nidi di ragno (1964), che si apre con una prefazione fondamentale. Siamo nel cosiddetto ‘periodo di silenzio’ in cui Calvino, combattuto fra idee diverse di letteratura, ripensa alla prima fase della sua carriera letteraria e ne tira le fila, a volte con un filologico raccoglimento (la trilogia composta da Il cavaliere inesistente, Il visconte dimezzato e Il barone rampante), altre con un ripensamento dei propri testi e un tentativo di attualizzarli.

Notiamo che La giornata di uno scrutatore è posto nel mezzo fra un libro di materia fantastica e uno resistenziale, uno che rifiuta il realismo e un altro che invece si fa archetipo e per lungo tempo rappresentante della corrente letteraria predominante negli anni Quaranta. Manca, in entrambe, il saggismo: Calvino narratore si limita, nell’opera che ha come protagonista Pin, a qualche passaggio più didascalico e riflessivo, ma sono pagine dove cerca di trascendere la letteratura per fare politica, mediare fra il Partito Comunista e il pubblico di lettori, non senza riserve.

Ai lettori più attenti non sfugge che Calvino, seppur a parole negli anni avesse condotto una strenua difesa del neorealismo, sia un narratore che non aderisce totalmente ai suoi codici. Calvino sente, soprattutto nella prima fase, il dovere di scrivere un romanzo di impostazione realista, è consapevole di avere il passo del narratore breve e un’enorme componente immaginativa. Ciò che cerca di fare è dare prova del proprio impegno politico attraverso il codice realista, pur non riuscendo mai a piegare la propria volontà di scrittore alla chiarezza, all’oggettività, alla trasparenza.

Negli anni Cinquanta poi il disagio dell’impegno diviene sempre più lucido e doloroso e la vena fantastica comincia a rinvigorirsi: l’eteronomia letteraria sta svanendo, il Partito Comunista ha deluso le aspettative, la stessa URSS si sta incancrenendo in un grigio organismo burocratico e Calvino combatte il sé stesso del passato, cominciando a immaginare una letteratura nutrita di sé e senza soggetto umano, come sarà dalle Cosmicomiche (1965) in poi.

La giornata di uno scrutatore è un romanzo atipico. Al centro abbiamo la vicenda di Amerigo Ormea, intellettuale militante del PCI, che in occasione delle elezioni del 1963 si trova a fare da scrutatore nel seggio del Cottolengo, istituto religioso dove venivano ricoverate persone con disabilità di vario tipo. Calvino assume il punto di vista del suo protagonista, un intellettuale razionalista che guarda con sgomento a quelli che considera come dei prodotti deformati. Il discorso principale è pronunciato dalla voce del narratore, mentre gli incisi, ben presenti nella narrazione, contengono il punto di vista del protagonista. La giornata di uno scrutatore è un racconto polifonico, dove abbiamo quindi due voci abbastanza solidali fra loro, in apparente contraddizione con la nozione scolastica secondo cui Calvino sarebbe lo scrittore della chiarezza. La testualità di questo romanzo appare spesso intrecciata a più voci, il personaggio di Amerigo è guardato dall’interno e dall’esterno e le parentesi sono uno stratagemma grafico per permetterci di sfiorare la mente finzionale di Amerigo.

La lezione di Gadda, del carciofo come stratificazione della pagina e della realtà, comincia a essere presente, l’autore supera la diffidenza nei confronti dell’ingegnere della parola e ne riprende, a modo suo, la tendenza a stratificare la sintassi e a sfogliarla cercandone un cuore (ricordiamoci de Il mare dell’oggettività, 1959, dove mostra una posizione molto tormentata, delineata con il senso di perdita e sfiducia crescente, rispetto alla postura dell’intellettuale che crede nella possibilità di poter reindirizzare lo sviluppo delle cose). Calvino attraversa una fase in cui guarda alla letteratura basata sulla storia e a quella che la evita come posizioni in fondo simili, che condividono una presa di posizione nei confronti della realtà; questo gli consente di sposare entrambe le angolazioni, slittando gradualmente da una letteratura politica a una concezione post-moderna.

Nello sprofondare nel Cottolengo, specialmente durante le elezioni del ’63, con tutto ciò che comportano per l’influenza della Democrazia Cristiana, l’autore non esita a rappresentare ciò che vede come mostruoso, perché tutto è laterale rispetto alla Storia e quindi inquietante, autonomo. Storia e natura sono in conflitto ma l’intellettuale coraggiosamente guarda l’ignoto negli occhi e cerca di rapportare questa alterità agli schemi che conosce: si cerca l’umano nella sospensione della storia.

Questo testo condurrà poi Calvino ad essere autore post-moderno. Il secondo capitolo, per esempio, ha un attacco saggistico molto interessante:

L’istituto s’estendeva tra quartieri popolosi e poveri, per la superficie d’un intero quartiere, comprendendo un insieme d’asili e ospedali e ospizi e scuole e conventi, quasi una città nella città, cinta da mura e soggetta ad altre regole. I contorni ne erano irregolari, come un corpo ingrossato via via attraverso nuovi lasciti e costruzioni e iniziative: oltre le mura spuntavano tetti d’edifici e pinnacoli di chiese e chiome d’alberi e fumaioli; dove la pubblica via separava un corpo di costruzione dall’altro li collegavano gallerie sopraelevate, come in certi stabilimenti industriali, cresciuti seguendo intenti di praticità e non di bellezza, e anch’essi come questi, recinti da muri nudi e cancelli.

Si evince da questo estratto che il narratore fa fatica a ‘definire’. È una descrizione di accumulo senza possibilità di sintesi, che non consente di capire cosa sia il Cottolengo. Si giustappongono elementi che vengono a formare una “città dell’imperfezione” e l’effetto è straniante e confondente, dal momento che permane una mescolanza di voci e sintassi.

Vediamo adesso l’incontro con la diversità: Amerigo, nel corso della narrazione, è sempre circondato da persone disabili. Questo gli provoca un flusso continuo di riflessioni, sia politiche che esistenziali. Sempre nel capitolo II, per esempio, si legge:

E ci fu una pausa nel flusso dei votanti, e si sentì un passo, come un arrancare, anzi un battere d’assi, e tutti quelli del seggio guardarono alla porta. Sulla porta apparve una donnetta, bassa bassa, seduta su uno sgabello; ossia non propriamente seduta, perché non posava le gambe per terra, né le penzolava, né le teneva ripiegate. Non c’erano, le gambe. Questo sgabello, basso, quadrato, un panchetto, era coperto dalla gonna, e sotto – sotto alla vita, alle anche della donna – non pareva che ci fosse più niente: spuntavano solo le gambe del panchetto, due assi verticali, come le zampe d’un uccello. – Avanti! – disse il presidente del seggio e la donnetta cominciò ad avanzare, ossia spingeva avanti una spalla e un’anca e il panchetto si spostava di sbieco da quella parte, e poi spingeva l’altra spalla e l’altra anca, e il panchetto descriveva un altro quarto di giro di compasso, e così saldata al suo panchetto arrancava per la lunga sala verso il tavolo, protendendo il certificato elettorale.

Quello che Amerigo vede non è niente di eccezionale: una donna priva di arti è descritta in maniera deformante, il vezzeggiativo «donnetta» la connota come un qualcosa di diminuito rispetto a ciò che dovrebbe essere, e anche la similitudine con le zampe di un uccello la avvicina a una condizione di ferinità e/o di oggetto. Amerigo non prova empatia nei confronti di colei che vede e assume lo sguardo dello scrutatore che sa che il Cottolengo è un istituto religioso che si occupa dei disabili (anche e soprattutto con menomazioni psichiche) e che in quel giorno la Democrazia Cristiana tenterà in ogni modo di far passare la cosiddetta “legge truffa”.

Gli abitanti del Cottolengo votano e l’intellettuale si chiede non solo se siano in condizione di farlo, ma se e quanto l’egualitarismo e il suffragio universale siano giusti in una condizione a-storica come quella in cui si sente immerso.

La Chiesa, in virtù della necessità politica, converte la nozione di uomo calato nella storia in quella di carne e, così facendo, dà la possibilità di voto anche a coloro che, forse, non hanno il libero arbitrio: Amerigo, come Calvino, è confuso, spaesato, gli incisi e le parentesi rappresentano la proliferazione di voci interne ed esterne alla mente finzionale di Amerigo.

Un problema netto del libro emerge nel capitolo IX:

L’attenzione dello scrutatore ai possibili brogli finiva per essere catturata da un broglio metafisico. Visti da qui, dal fondo di questa condizione, la politica, il progresso, la storia, forse non erano nemmeno concepibili, (siamo in India), ogni sforzo umano per modificare ciò che è dato, ogni tentativo di non accettare la sorte che tocca nascendo, erano assurdi. (È l’India, è l’India pensava, con la soddisfazione d’aver trovato la chiave, ma anche il sospetto di star rimuginando dei luoghi comuni). Questa accolta di gente menomata non poteva essere chiamata in causa, nella politica, che per testimoniare contro l’ambizione delle forze umane.

Il Cottolengo, almeno per adesso, appare ad Amerigo come un broglio che ha a che fare con la vita stessa. Forse davvero il progresso, la politica non servono a niente, il Cottolengo è un luogo in cui l’ambizione delle forze umane è vana. In seguito Amerigo prova, da storicista, a trovare delle coordinate per questo luogo, a vedere la possibilità di un progresso, ma dall’immagine dell’India passa a quella della Svizzera, procede per stereotipi perché non è in grado di capire come possa funzionare una città dell’imperfezione come quella. Le suore, i preti, sono l’altra faccia della medaglia: se gli infermi rappresentano l’impossibilità di azione, il clero è l’affermazione dell’intervento umano. La sintassi è irrequieta, Calvino conduce il discorso senza sapere dove porterà, ha ancora un’enorme fiducia nella poetica dell’impegno ma comincia a mancargli il terreno sotto ai piedi.

Nel capitolo XIII, dopo aver parlato al telefono con Lia e aver scoperto che è incinta (con la conseguente crisi di identità derivata dal non comprendere la dinamica del parto, della donna espropriata della propria soggettività per generare), la riflessione sull’umano e soprattutto su cosa sia e quando inizi a essere soggetto diviene centrale nel momento in cui entra in una stanza “camerone” dove sono ricoverate persone disabili che non sono in grado di muoversi:

Il grido acuto proveniva da una minuscola faccia rossa, tutta occhi e bocca aperta in un fermo riso, d’un ragazzo a letto, in camicia bianca, seduto, ossia che spuntava col busto dall’imboccatura del letto come una pianta viene su da un vaso, come un gambo di pianta che finiva (non c’era segno di braccia) in quella testa come un pesce, e questo ragazzo-pianta-pesce (fino a dove un essere umano può dirsi umano? Si chiedeva Amerigo) si muoveva su e giù inclinando il busto a ogni “ghiii… ghiii…”

Vediamo che Amerigo descrive questo ragazzo attraverso la sovrapposizione di immagini perché non è in grado di definirlo in maniera concisa, come dimostra anche il ricorso all’analogia. Prova a dare forma al soggetto tramite elementi di una biologia non umana, ma non c’è la distanza che si aveva nella descrizione della «donnetta», bensì si ha il tentativo di guardare il ragazzo negli occhi, riconoscerlo come umano e dargli dignità. Più in là, nello stesso stanzone, c’è un padre che prova a comunicare con il figlio paralitico. L’uno è necessario all’altro, c’è reciprocità di legame e quindi forse ciò che definisce l’umano è l’amore. Lo sguardo illuminista di Amerigo si piega al romanticismo, cerca una soluzione al broglio e la trova, sebbene parzialmente, nell’amore di un padre che non può vedere nel proprio figlio altro che lo specchio dell’umanità.

Il punto di vista storicista comincia a scemare, Amerigo (come Calvino) cerca di dare valore al dato di natura rifiutando nelle pagine successive il passato, che appare come una trappola perché è concluso, e il futuro, visto come alternativa radicale a ciò che fu e quindi distopico, peggiore. Amerigo si identifica col Cottolengo, con l’hic et nunc, e guarda in faccia la realtà: l’impegno sta svanendo, forse non è più possibile lottare.

Il finale, che riprende varie descrizioni precedenti, è sensazionale. Siamo alla fine della giornata, al tramonto:

Donne nane passavano in cortile spingendo una carriola di fascine. Il carico pesava. Venne un’altra, grande come una gigantessa, e lo spinse, quasi di corsa, e rise, e tutte risero. Un’altra, pure grande, venne spazzando, con una scopa di saggina. Una grassa grassa spingeva per le stanghe alte un recipiente carretto, su ruota di bicicletta, forse per trasportare la minestra. Anche l’ultima città dell’imperfezione ha la sua ora perfetta, pensò lo scrutatore, l’ora, l’attimo, in cui in ogni città c’è la Città.

Si ha finalmente l’armonia. La città dell’imperfezione ha un suo momento perfetto, irrompe la semplicità dell’esistenza e la giornata tanto temuta da Amerigo si scioglie nei gesti domestici, abitudinari. Le donne nane hanno un atteggiamento attivo, sono loro a distinguersi da Amerigo che risulta essere l’unico elemento stonato di un meccanismo perfetto, armonioso e naturale. Ridono, c’è un rovesciamento carnevalesco, dove l’eccezione diviene la regola, ciò che è inconsueto normale. La legge truffa non passerà, il Cottolengo continuerà a essere così com’è, Amerigo, forse, si è evoluto, aprendo la mente anche a ciò che non è razionale, che non riguarda l’umano nel senso stretto del termine.

L’opera mette in scena una situazione storica e filosofica che si sta evolvendo. Si intensifica l’elemento saggistico e si recupera l’idea di un racconto dal vero. C’è una resistenza all’invenzione che di lì a poco sparirà in virtù delle Cosmicomiche, l’anticamera del postmodernismo italiano. È qui però, nella Giornata di uno scrutatore, che Italo Calvino prova ad allontanarsi dallo storicismo e dalla poetica dell’impegno, e può farlo per la prima volta solo in un luogo come il Cottolengo, dove ciò che è straniante diviene la regola. Guarda frontalmente la natura e capisce che le costruzioni della storia si sono polverizzate e che l’arte ha una sua autonomia che le permette una ricerca sul piano sovrasensibile.

di Niccolò Fallani