Jackie
Qualche mese dopo Neruda, il regista Pablo Larrain torna al cinema con un nuovo film biografico, decisamente di maggior impatto mediatico: un film su Jacqueline Lee Bouvier, meglio nota come Jacqueline Kennedy, magnificamente interpretata da Natalie Portman, la cui abilità dietro la telecamera non si scopre oggi.
Jackie – questo il titolo della pellicola – racconta il dolore della first lady americana dopo la morte del marito, intrecciando in maniera quasi caotica eventi posteriori all’attentato di Dallas con flashback di vita alla Casa Bianca. Il fulcro della storia è un’intervista rilasciata dalla vedova Kennedy ad una settimana dall’assassinio del marito. Ed è attraverso questa intervista che ci viene consegnata una fotografia di Jackie, o forse dovremmo dire un suo autoscatto. Tutti gli episodi narrati, i momenti descritti, appaiono come tanti fili di una matassa, capaci di allontanarsi solo fino ad un certo punto dal nucleo della trama che è quell’intervista. I flashback non tornano indietro oltre un certo punto, i fatti successivi non si spingono oltre un certo punto. L’arco temporale è concentrato, concentrato solo sul dolore e sul lutto.
L’elaborazione del lutto è un fenomeno quanto mai affascinante, che nel personaggio di Jackie viene intriso di ambiguità. Perché è un lutto che scorgiamo in parte come osservatori esterni e che per un’altra parte ci è raccontato dalla stessa Jackie. Ambiguo perché più che il dolore per la perdita umana, a tormentare la first lady è l’idea che il marito possa scivolare via silenziosamente, non sufficientemente ricordato. Il suo unico obbiettivo sembra recitare l’apoteosi del marito attraverso le sue cerimonie commemorative, il suo funerale.
In effetti, non è sbagliato dire che il film sia il racconto del funerale di John Kennedy. Ed è così che nella sua esaltazione del marito e dei suoi valori – in perfetta armonia con la tendenza americana che pretende, parlando di JFK, solo la sua sublimazione – la pellicola compie l’esaltazione di Jackie. Una prima donna di cui ci si sarebbe potuto dimenticare, non per suoi demeriti, ma solo perché non dissimile da tante altre. O meglio, una donna di cui molti si sarebbero ricordatati, più che per il suo soggiorno alla Casa Bianca, per il suo successivo matrimonio, nel 1968, con l’armatore greco Aristotele Onassis, uno degli uomini più ricchi del pianeta a quel tempo.
Dunque è una scelta e non un caso che, di Jackie, il film non ci dica altro che il suo dolore: né le sue origini, né le sue vicissitudini negli anni seguenti. Rimane allo spettatore solo un gigantesco monumento, una imponente statua, di una donna dal destino avverso, chiusa nel suo lutto, nel suo amore perduto, nella grandezza di un mondo felice, dissolto nel nulla, crollato al suolo e che grida perché non sia dimenticato.
Articolo a cura di Francesco Runello