Kafka: assurdo, colpa ed ebraismo
Tra quelli che sono gli autori riconosciuti universalmente come i maggiori del Novecento, senz’altro Kafka riveste un ruolo di primo piano, se non altro per la notevole difficoltà riscontrata dalla critica nel tentativo di etichettare la sua produzione.
Esiste senz’altro la tendenza a inserire Kafka in un filone di “letteratura dell’assurdo”; senz’altro in Kafka l’elemento che per il lettore è, al primo impatto, straniante, “assurdo”, riveste un ruolo di primo piano, addirittura caratterizzante della sua opera. Il punto è che, prima di procedere ad una lettura più approfondita, occorre riflettere attentamente sulla consistenza di questo “assurdo” kafkiano: per assurdo non possiamo intendere un qualcosa «che è contrario alla ragione, all’evidenza, al buon senso; che è in sé stesso una contraddizione» (cito testualmente la definizione data nel vocabolario Treccani).
Quanto di assurdo c’è nelle opere di Kafka non è in assoluto contrario alla ragione (mi riferisco soprattutto a Il Processo e Il Castello), né è in sé stesso contraddittorio: lo è solo nella misura in cui cerchiamo di inserirlo nei nostri schemi logici (e intendo dei lettori medi di cultura europea, e occidentale in generale), è contrario a quella logica che fa riferimento ai nostri modelli di pensiero fondati sui nostri valori e, soprattutto, su quello che è il nostro concetto di normalità. Nel mondo costruito da Kafka, però, ad eccezione del protagonista, i restanti personaggi sembrano fare riferimento ad una logica che è “altra” rispetto alla nostra, ma non per questo irrazionale, anzi: la logica dei personaggi che popolano i racconti di Kafka è una logica ferrea e accettata universalmente, tanto che è la logica del protagonista ad essere considerata irrazionale e, spesso e volentieri, risibile. Il problema si crea dal momento in cui al protagonista viene attribuita una colpa che è tale in quanto trasgressione dei precetti derivanti dalla “altra logica” (rispetto al punto di vista condiviso dal lettore e dal protagonista); si genera in questo modo una sorta di cortocircuito logico, per cui il protagonista si ritrova ad essere colpevole di un’effrazione che non ha commesso (o che, a causa della differenza dei sistemi dei valori, crede di non aver commesso, il che per questi è sostanzialmente la stessa cosa) e l’incapacità di comprendere questa colpa è essa stessa una colpa, è avvertita come una colpa dal protagonista. La colpa, quindi, o non c’è o non è avvertita come tale, eppure, è universalmente riconosciuta e, pertanto, esiste, e viene allora sentita come tale dal protagonista, seppure incapace di comprenderla.
Se volessimo definire la situazione che abbiamo appena delineato si potrebbe usare l’espressione di senso di colpa senza colpa; concettualmente molto vicina alla nozione del peccato originale, propria della tradizione giudaico-cristiana; questa concezione è, generalmente (e qui prendiamolo per buono), più forte nel ramo di cultura ebraica, e potrebbe aprire un’interessante via per la lettura dell’opera di Kafka.
Kafka infatti nacque in una famiglia di origine ebraica e, sebbene le sue opere non debbano assolutamente essere lette con la serietà e la vocazione profetica che ad esse viene spesso attribuita (Il Processo come prefigurazione della condizione dell’ebreo ucciso come un cane nei lager, senza che abbia una colpa), a mio avviso piuttosto irrealistica (dai suoi biografi ci arrivano aneddoti di Kafka che leggeva le sue opere davanti agli amici che, alla faccia delle letture esistenzialiste, si sbellicavano dalle risate, e forse agli impiegati del primo Novecento doveva suonare tragicamente divertente l’idea che la prima preoccupazione di un impiegato, svegliatosi misteriosamente tramutato in scarafaggio, fosse come fare ad andare in ufficio in quelle condizioni), può comunque essere interessante constatare come sia preponderante nelle sue opere un tema, quello del senso di colpa, peculiare della cultura ebraica in cui comunque non si riconobbe mai pienamente e che però lo accomuna ad altri autori contemporanei che, pur essendo geograficamente lontani, condividevano la medesima cultura: volendo considerare la sola letteratura italiana della prima metà del Novecento, è possibile riscontrare notevoli corrispondenze con l’opera di Italo Svevo; particolarmente prolifico può essere, a mio avviso, ricercare dei punti di contatto tra Il Processo di Kafka e La Coscienza di Zeno di Svevo. Innanzitutto, da un punto di vista cronologico le due opere sono vicinissime per stesura e composizione: Il Processo è stato scritto tra il 1914 e il 1915, poi pubblicato postumo nel 1924; La Coscienza di Zeno fu scritta tra il 1919 e il 1922, e finita di stampare nel 1923. Da un punto di vista formale, Il Processo si presenta come un romanzo vero e proprio, mentre la Coscienza è una sorta di autobiografia, peraltro viziata dall’inattendibilità dei narratori, ma questo non ci interessa. Per quanto concerne il senso di colpa, invece, è esemplare l’incipit della narrazione :
«Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., perché, senza che avesse fatto nulla di male, una mattina fu arrestato».
Al contrario di quanto accade per Zeno Cosini, il narratore-Kafka è esterno e onnisciente, sebbene si avvicini a più riprese al punto di vista di K., e, in linea di massima, perfettamente attendibile. Quindi questo rigo di narrazione ci informa implicitamente che, malgrado di fatto non si sia macchiato di alcuna colpa (o così crede, che è lo stesso), Josef K. viene, in apparente assenza eppure in virtù di quella colpa, punito con l’arresto; questa colpa sarà il motivo di tutte le disavventure burocratiche che vedranno K. come protagonista, e si pone quindi come vero e proprio motore della storia stessa. Nella Coscienza di Zeno la parola “colpa” viene ripetuta per ben 25 volte nell’arco di circa 400 pagine (faccio riferimento all’edizione Einaudi), che statisticamente significa un’occorenza ogni 16 pagine, una frequenza notevole che basta da sé a rendere l’idea della centralità del tema. Sebbene l’atteggiamento di fronte alla colpa sia totalmente diverso (Josef K. si batterà fino in fondo per dimostrare la sua innocenza, mentre Zeno tende piuttosto a giustificare la propria colpevolezza), è innegabile che una tale centralità del tema, in due autori che pur vivendo in contesti politici e geografici completamente diversi sono legati da contemporaneità e cultura ebraica, la quale probabilmente è vettore di questo stesso tema che tocca Kafka e Svevo e toccherà – tristemente – la generazione di scrittori di cultura ebraica a venire, non possa essere rigettata a prescindere senza essere considerata come possibile punto di partenza per indagini che potrebbero essere particolarmente fruttifere.
Copertina: NINNI KAIRISALO, KALI GRAPHICS / ILLUSTRATIONS & GRAPHICS