La Chanson de Roland e la percezione indoeuropea del mondo
l'indagine di Dumézil
La versione più antica che possediamo della Chanson de Roland è contenuta in un manoscritto di Oxford, citato comunemente come O, e datato al secondo quarto del XII secolo; il testo tuttavia viene fatto risalire alla fine dell’XI secolo. La leggenda ha un fondo di verità storica, che conosciamo a partire da fonti arabe e latine, e che rinvia all’avvenimento del 15 agosto 778: il giorno del massacro della retroguardia di Carlo Magno ad opera di bande basche, sui Pirenei. Fra i caduti più importanti, Eginardo (autore di Vita Karoli Magni) annovera Hruodlandus, Rolando, appunto. Naturalmente all’interno del manoscritto si narra una vicenda che risulta assai più affascinante della mera e obiettiva descrizione dei fatti. Carlo, dopo aver conquistato la Spagna intera, accetta di buon grado le offerte di pace di Marsilio, re di Saragozza, non immaginando che esse celino un inganno fatale.
Gano, infatti, cognato di Carlo e patrigno di Rolando, viene inviato come ambasciatore al cospetto del re saraceno su esortazione del figliastro, verso il quale nutre un legittimo ma mortale risentimento per il pericolo a cui lo ha esposto (nessuno ha infatti la certezza che Marsilio rispetterà l’ambasciatore). Tuttavia, proprio Marsilio offre a Gano la possibilità inaspettata di una vendetta e lo persuade ad ordire un tradimento nei confronti del proprio figliastro e del proprio sovrano, corrompendolo con innumerevoli e preziosissimi doni. Il progetto è il seguente: Marsilio fingerà di sottomettersi, ma il suo esercito si terrà pronto all’attacco sul passo di Roncisvalle, dove coglierà di sorpresa la retroguardia; Gano dovrà soltanto fare in modo che a capo vi sia Rolando. Dunque il traditore fa ritorno tra i propri compagni ed arriva il momento dello scontro: centomila Saraceni si scagliano contro ventimila Franchi. Subito la sorte di questi ultimi pare segnata e Oliviero (il saggio amico di Rolando) consiglia al nipote di Carlo di suonare l’olifante, il corno d’avorio che serve a richiamare l’esercito intero. Soltanto dopo la morte di Oliviero e dell’arcivescovo Turpino, Rolando, in fin di vita, suona il corno e, per lo sforzo, muore. Re Carlo vendica il nipote facendo strage di Saraceni e ne uccide il capo nella battaglia decisiva. Al ritorno dalla disfatta, Gano viene processato e, nonostante tenti di difendersi, il tradimento è lampante: l’unica soluzione è il duello giudiziario, una pratica antichissima che vede come protagonisti due parenti delle parti in causa, i quali si battono fino alla morte di uno. Alla morte di Pinabel, parente di Gano, verranno giustiziati anche altri suoi trenta familiari, seguendo un modus operandi che ricorda moltissimo le punizioni esemplari di quella Grecia Arcaica che Eschilo rappresenta nei propri drammi. Tutto il genos sconterà il fio delle colpe del parente traditore. Ecco, pertanto, un primo elemento per il quale percepiamo “un’aria di somiglianza” con l’antichità. E non soltanto dell’antichità classica, in quanto, riprendendo un’importante tesi del filologo italiano Cesare Acutis, la relazione tra vendetta e tradimento modifica le sorti di Gano. La sua vendetta sarebbe legittima se essa non si risolvesse in tradimento contro il sovrano, che qui si configura come autorità regia richiesta da Dio, inviolabile e sacra. Ancor di più, tuttavia, è degno di nota il dibattito dei filologi relativo alla struttura mitica soggiacente alla vicenda narrata. Grisward – in “l’or corrupteur”- sostiene che il nucleo originario della storia sia ancora più antico e richiami una struttura mitica secondo cui il movente della vendetta è sostenuto da un altro ancora più profondo e potente: la corruzione ad opera dei Saraceni per mezzo di ricchi doni. È importante introdurre a questo punto una teoria postulata da Georges Dumézil che si rivela essenziale per comprendere un punto di vista innovativo: essa è quella a cui giune in ragione dei propri studi comparati e muove dall’idea che le popolazioni indoeuropee considerassero il cosmo, il divino e la società secondo una struttura trifunzionale. Quest’ultima conferiva alla prima funzione (tipica dei sovrani e che può assommare in sé la seconda e la terza) gli attributi di sacralità, sapienza e sovranità; alla seconda la forza guerriera e alla terza ricchezza, fecondità, amore e femminilità. Alla luce di questo, si può riconsiderare la struttura della Chanson de Roland ed è inevitabile individuare degli elementi comuni con altri schemi della mitologia, anche più antica. Nella lotta descritta poco sopra, i Franchi, prodi e pii, sono detentori di prima e seconda funzione. Al contrario, i Saraceni sono descritti come ricchissimi e quindi detengono la terza funzione. Fra questi due popoli l’equilibrio di forze si sgretola per via di un uso fraudolento dell’oro (la corruzione di Gano) ed è ristabilito da un atto sacrale in cui Carlo Magno ferma il sole e rivendica la disfatta. La prima funzione, il sovrano, prevale sulla terza e ne rende vana l’influenza negativa. E come constatazione meravigliosa di quanto in profondità sia radicata questa plurifunzionalità, cito il mito scandinavo in cui si narra la lotta degli Asi (Odino e Thorr) contro i Vani (Njordhr e Freyr). Mentre i primi detengono la prima e la seconda funzione, agli ultimi spetta la terza, in conseguenza della quale tentano di corrompere gli avversari. Ma, improvvisamente, giunge a ristabilire un equilibrio, e a contrastare la terza funzione, il dio-mago Odino.
Naturalmente altri elementi mitici non mancano, ma è l’elemento sacrale che sta ad origine e precursore di quello che in seguito i filologi e gli antropologi chiameranno esprit de croisade e che sancisce, in ultima istanza, l’insediamento e il “farsi storia” del mito, che finalmente si insedia nella società feudale e si adatta al suo sistema di valori.