La cognizione del dolore
di Carlo Emilio Gadda
«Commistione di dolore, di lucidità immaginifica e di verberante vituperio»: probabilmente questa è la formula che più di tutte riesce a carpire l’essenza della Cognizione, di quel dolore che si spande attraverso le parole e serpeggia
all’interno dell’invenzione fantastica, che si sviluppa sullo sfondo di una Brianza sudamericana. Il protagonista, Gonzalo, è definito dallo stesso Gadda come «personaggio solitario, egoista, bisbetico e reazionario», che ad una più attenta analisi risulta essere l’alter ego dello scrittore stesso. Cos’è quest’opera, in fondo, se non la testimonianza di un’adolescenza che non è mai stata vissuta, destinata inevitabilmente al fallimento a causa del narcisismo e dell’egoismo?
Gadda, che si erge come narratore di una storia che non è avulsa rispetto al suo passato, riprende il titolo dell’opera da un passo di A. Schopenhauer in cui si sottolinea l’interdipendenza tra il dolore e la conoscenza: Gadda concorda nel ritenere che la parola “cognizione” stia ad indicare un percorso, un itinerario progressivo che lentamente conduce alla pienezza della conoscenza, alla consapevolezza del dolore che ci pervade. Questo processo graduale riguarda in
primo luogo il protagonista della storia, che in qualche modo incarna la condizione d’essere dell’umanità intera: ma ciò che Gadda vuol farci comprendere è che questa “cognizione” assume anche il ruolo di “teoria e scienza del dolore”, che racchiude la ricerca delle cause, la fisiologia di un male interiore.
Uno di questi mali che logora ed inebria il protagonista è il senso di colpa nei confronti della madre: il loro è un rapporto di amore e livore, di vendetta, di disperazione e compassione. Proprio perché questa scrittura si rivela come autobiografica, potremmo dire che la trasposizione letteraria del rapporto tra Gadda e sua madre Adele abbia una funzione liberatrice, un effetto catartico sullo scrittore, che in qualche modo confessa e dona i suoi turbamenti e le sue sofferenze all’inchiostro.
Questo abisso della disperazione penetra il protagonista in ogni momento, in ogni attimo ch’egli vive: questo dissidio interiore si esplica attraverso il rifiuto, la negazione, pensieri omicidi nei confronti di chi gli sta attorno. E’ un dolore
inespresso, taciuto, vissuto in una solitudine che esplode nei cosiddetti “deliri interpretativi”, che non sono altro che allucinazioni che offrono una proiezione distorta e fallace della realtà circostante, ma che a tratti si manifestano come lucida consapevolezza della follia che lo pervade. Gonzalo è vittima di un rifiuto originario, di un “diniego oltraggioso” dei suoi parentes, che gli hanno sempre negato il sorriso: il male invisibile che l’opprime gli impedisce di vivere, portandolo ad avere pulsioni autodistruttive sempre più tormentate. Allo stesso tempo però il protagonista è come incatenato, come se fosse incapace di dominare in maniera razionale un mondo troppo complesso: Gonzalo possiede un io plurimo, un io che si scinde tra il volere e l’agire, che non deve far altro che
sopravvivere in attesa dell’”inevitabile approdo”.
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